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Se qualcuno ti dice che non sei un vero scrittore… (forse ha ragione)

Da Ayameazuma

Il giornalista Giampaolo Simi – che non è proprio l’ultimo arrivato e ha pubblicato vari libri anche con Einaudi e ha visto un suo racconto trasformato in una fiction Rai – ha scritto una nota diffusa dal suo profilo Facebook che conferma tutto quello che abbiamo sempre sostenuto noialtri di WD.
Ovvero: se pubblicate a pagamento o vi autopubblicate non verrete lanciati nell’Olimpo degli scrittori, non avrete la possibilità di farvi notare.
La verità? La verità è che se pagate per pubblicare vi ignoreranno tutti: critici, giornalisti, altri autori, altri editori, lettori… tutti. Poi, liberi di fare quel che volete coi vostri soldi, anche fare un falò in giardino.

[...] Oggi mi imbatto in una manchette sul sito de La Repubblica. Lo slogan inizia con una protasi castrante e angosciosa: “Se qualcuno ti dice che non sei un vero scrittore…” (“vero” è anche scritto in corpo maggiore, ad aumentare la frustrazione). Nell’apodosi però arriva il raggio di speranza, il grido di riscatto: “Mandalo in una libreria la Feltrinelli.” Per terminare con un ammiccante: “scopri com’è facile”.
E facile lo è. A patto di averci i soldi, ovvio. Mandi il file al server de Il mio libro (collegato a kataweb e al gruppo La Repubblica-Espresso), scegli il formato e la copertina, paghi e rievi le copie a casa. 50, 100, 500. Alcune di queste saranno disponibili nelle librerie Feltrinelli dove lo scettico e malevolo “qualcuno” potrà trovarlo e ordinarlo, per poi presentarsi alla prossima pizzata con la copia da farti autografare e mostrare ai commensali, ammettendo contrito: “Non credevo che il mio amico fosse un vero scrittore e, invece, guardate qua.”
A promuovere questo bieco malinteso non è qualche scaltro tipografo di provincia, ma sono due grandi gruppi editoriali italiani, per giunta situati in area progressista. Peccato che, alla fine della fiera, il concetto non proprio progressista è chiarissimo: per essere un “vero scrittore” basta che paghi. Non dico questo perché penso che sia volgare mischiare i soldi con la letteratura. Sono anzi convinto che ti puoi definire scrittore quando qualcuno ti paga e investe per pubblicare quello che hai scritto. Tanto o poco, fa la differenza, come nel calcio, ma il discrimine rimane chiaro.
Non è una difesa di una corporazione, perché questa corporazione non esiste e non esisterà mai: non esiste e non esisterà mai un albo o un’abilitazione professionale che consenta di esporre targhe di ottone con inciso “scrittore”. Ma proprio questa ragione funziona anche all’inverso: non è titolo che qualcuno ti possa vendere a qualche migliaia di euro, come una laurea o un diploma fasullo.

Chiamare poi questo outlet di illusioni una democratizzazione culturale al grido di “siamo tutti scrittori” è soltanto spalancare le porte al prossimo analfabetismo di massa, desertificare gli orizzonti culturali di un Paese già devastato da un ventennio di dittatura culturale dell’egotismo più estemporaneo. [...] Spacciare un librificio per corrispondenza come una rivoluzione dal basso significa anche negare che esistano una competenza, un talento e un ruolo propri del narratore. Tutte cose che, invece, riconosciamo naturalmente a chi sa far crescere una vigna o delineare un piano di ammortamento, centrare l’angolino da trenta metri o far cantare quattro pistoni come se fossero nuovi.
Far arrapare centinaia di “veri scrittori on demand” al grido di “se l’hai scritto, va stampato” significa, in ultima istanza, abbracciare il core business dell’ideologia berlusconiana, cioè il suo velleitarismo più sordo e tracotante: nell’Italia in cui davvero tutti possono essere ministri, meglio se con delega al Nulla, perché non possiamo essere tutti scrittori?

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