E’ un lamento sincero quello del conte; un canto mesto e dolente che alligna nella psiche depressa del vampiro. Ma quando dal taschino di Johnatan ruzzola fuori la collana portaritratti con la foto della giovane moglie, Lucy, Nosferatu – per pochi attimi – trasecola. L’immagine della donna, lei così bella e desiderabile, scuote il vampiro facendolo gemere di macabra voluttà. In quei lineamenti delicati, pallido il volto, il conte scorge la possibilità di lenire l’angoscia attraverso la forza taumaturgica dell’amore, coacervo delle pulsioni più distruttive che albergano nel suo profondo: l’esplosione della violenza, la sete di sangue, il ricongiungimento alla vita perduta.
Considerate ora se questo è un mostro.
Elegante e raffinato nei modi, sorvegliato nel linguaggio e colto oltre ogni ragionevole necessità. Devoto al culto degli antenati («io sono discendente di un’antica famiglia») ma non insensibile all’animo umano e la sofferenza che lì s’annida. Contro Filippo Tommaso Marinetti che nel 1909 esortava il lettore a uccidere il chiaro di luna e i suoi influssi poetici («Ma, a poco a poco, il lucente e caldo sorriso della luna traboccò dalle nuvole squarciate. E, quando ella apparve infine, tutta grondante dell’inebriante latte delle acacie, i pazzi sentirono il loro cuore staccarsi dal petto e salire verso la superficie della liquida notte»), si alza il flebile contro canto del mostro – lui, suddito dell’astro più nobile del creato – alla luna «regina sovrana della vera malinconia» («Io ora al sole non attribuisco più nessuna importanza né alle scintillanti fontane che alla gioventù piacciono tanto; io adoro solo l’oscurità e le ombre dove posso essere solo con i miei pensieri»). Malinconia che si nutre della mancanza di legami significativi. Con Nosferatu la sofferenza, già connaturata alla sua vuota condizione di redivivo, diventa, se possibile, insopportabile nell’assenza dell’oggetto d’amore («La mancanza di amore è la più crudele e abbietta delle pene»).
E’ un’anima delicata quella che parla ma nessuno è disposto ad ascoltarla. Dalle vette di un romanticismo altamente idealizzato quale forma reattiva a una realtà verso cui non nutre più interesse, la peste – una volta respinto da Lucy – è il de profundis del mostro. L’intera città di Wismar – già invasa da ratti e pipistrelli al sopraggiungere del vampiro – è infettata dal morbo. La cittadinanza sprofonda nel disordine. Ed ecco compiersi il tragico rituale. Solo ora la vocazione malevola del mostro sprigiona tutta la sua infida tracotanza. Vampirizzato Jonathan, Lucy sarà comunque sua. Chinandosi sul collo della «pura di cuore» ne inoculerà la morte mentre fuori il mondo – in preda al caos – s’avvia all’apocalisse.
Considerate solo ora se questo è un mostro. Solo quando, soggiogato dalle pulsioni, Nosferatu rovina a terra morto all’albeggiare mentre Lucy, coricatale accanto, esala il suo ultimo rantolo vinta dal macabro rituale del vampiro. E sembrano udirsi le parole del Cristo: «Tutto è compiuto» (Gv 19,30).
Nosferatu muore. Muore per volontà di Lucy che – con l’intento di sovvertire il fato – intrattiene il conte fino alle prime luci dell’alba. Un raggio di sole, un solo raggio di sole e il mostro sarà trapassato. E così è stato. La logica sacrificale di Lucy s’impone sulla fisiologia del mostro.
Qual è il bene? Dov’è il male?
Considerate solo ora se questo è un mostro.
Non prima, né dopo.
Stefano Loparco