Lasciammo dunque il villaggio e riprendemmo a salire ancor più verso l’interno delle montagne, scollinando un altro passo per raggiungere un altopiano più vasto, oltre la seconda fila di creste. Incontrammo i primi mucchi di pietre in uno slargo che si affacciava su un burrone poco profondo e che segnava un arco seguendo la montagna. Una pista seguiva la curva naturale del terreno, I veicoli al loro passaggio avevano schiacciato dei sassi nella terra. Abbandonammo presto la pista per seguire le tracce delle pietre che si muovevano quasi in direzione opposta scendendo nella valle quasi come una frana. Man mano che ci spingevamo nell'entroterra le pile di pietre si facevano più frequenti, molte tombe islamiche e numerosi resti di altre antiche strutture stavano tra la zona delle pietre e le montagne dove dovevano essersi trovate le antiche miniere di rame. Chi ha passato abbastanza tempo in queste terre sa che esistono segni sottili ma inequivocabili del fatto che esse siano state popolate da almeno settemila anni, fin dall'alba dell’uomo; resti di antichissimi insediamenti preistorici possono ancora affiorare inaspettatamente alla luce quando queste regioni vengono spazzate dai venti forti che eccezionalmente salgono dal deserto. In un’ampia pianura poco lontana da qui, nella zone di Al Madam a sud di Al Dhaid, negli anni ottanta vennero ritrovati i resti di un forno di argilla risalente all’età del ferro mai rinvenuto prima malgrado la zona fosse da lungo tempo esplorata e ampiamente utilizzata per l’allevamento dei cammelli.
Quando ci spingemmo fino ai bordi dell’altopiano ci trovammo di fronte a un paesaggio veramente lunare: sotto di noi, nella piana, la luce fioca di un’alba che iniziava a dichiararsi rischiarava appena una distesa di centinaia di mucchi di pietre che coprivano un’area di parecchi ettari lungo tutta la pianura. Le pietre si allungavano verso est, partendo poche centinaia di metri discosto dalla montagna fino verso una pista di camion che si scorgeva in lontananza e si allungava da nord a sud verso il confine. Viste da quassù le pietre formavano file quasi ordinate, sembravano una processione misteriosa, o una migrazione di sassi che si stava muovendo con la forza discreta e i tempi lentissimi delle montagne, delle ere geologiche, delle glaciazioni, con i tempi calmi e possenti di nostra madre terra. Forse un tempo le pietre continuavano oltre la camionabile, ormai non era più possible sapere se altri cumuli si fossero spinti ancora più a nord e altre pietre fossero sparite oltre l’orizzonte, fino ad arrivare al quarto vuoto, al grande deserto dove forse andavano tutte a morire, a trasformarsi in polvere come tutti gli altri esseri viventi qui intorno.
Scendemmo con attenzione le pareti ripide dell’altopiano, per larghi tratti il terreno pareva tenere bene e seguivamo in sentieri tracciati dalle capre, alcune volte però i nostri passi affondavano nella terra friabile consigliandoci di mantenere viva l'attenzione a quella discesa nell'alba. Ci volle diverso tempo per arrivare fino in basso, una volta scesi ci accorgemmo rapidamente che diversamente dalla valletta sopra, nella pianura formata dal letto di antichi wadi non c’era alcun segno di interventi umani, non trovammo nessun coccio, nessuna conchiglia, non carbone, ne’ ossa; niente vetri, perle, frantumi di monili, nessun resto a testimoniare un'attività fosse antica o recente, trovammo solamente un piccolo guscio e due frammenti di ossa. Parecchie centinaia di metri più a ovest si intravedevano i detriti di una cava abbandonata ma nessun indizio pareva suggerire che i veicoli che caricavano e scaricavano il materiale fossero mai penetrati a violare il luogo quasi mistico in cui ci trovavamo.
Ciascun mucchio era composto da pietre grosse più o meno come un pugno a formare delle basse piramidi a base rotonda. Erano pietre da depositi alluvionali, avevano tutte bordi smussati ma non erano completamente tonde o ovali come le pietre trascinate dall'acqua dei wadi. La piccola pianura sassosa dove si trovavano era il risultato di un’antica attività geologica, qui l’acqua aveva per millenni predato le pendici dei monti Hajar strappandone un misto di limo, ghiaia, pietre grandi e piccole e trascinandole fin quaggiù. Le pietre si estendevano su una superficie molto ampia di diversi chilometri quadrati, a volte più concentrate altre volte più sparse. Nelle zone di maggiore concentrazione si potevano contare centinaia di mucchi di pietre, più lontano invece se ne trovavano appena alcune decine. Molte erano rovinate, alcune erano crollate e avevano lasciato solo ombre tenui sulla pianura. Il modo in cui ciascuna pila era costituita lasciava intuire che era stato utilizzato materiale a portata di mano, c’erano pochissime pietre rimaste sparse tra le pile, la cui densità variava da area ad area probabilmente in funzione delle pietre che originariamente coprivano quella parte del terreno. La densità delle pile pareva dunque essere più funzione casuale della numerosità di pietre disponibili nelle vicinanze che il risultato di un progetto preciso. Queste pietre erano in un certo qual modo naturali e selvagge, ammassate a caso senza un’evidente volontà di costruire forme particolari. Provammo a rimuovere interamente una pila ed era evidente che il suolo non era stato preparato in modo alcuno, sembrava che le pietre si fossero semplicemente accumulate in un posto qualunque. Il deserto aveva depositato sulle pietre la sua vernice secolare, quello che i beduini chiamano il colore del deserto. I beduini sanno riconoscere dove è passato un cammello o un fuoristrada semplicemente leggendo il colore delle pietre e del terreno. Ci spiegarono che intorno a noi si potevano distinguere chiaramente tre sfumature di colore: il rosso scuro quasi marrone della polvere millenaria depositatasi sulle aree inesplorate, un colore intermedio che stava proprio nella zona delle pietre e poi macchie più chiare dove la terra era stata smossa di recente da veicoli, cammelli o dai grandi lucertoloni che ci scavavano le loro tane. La polvere del deserto ricopriva una sola faccia di ciascuna pietra, ognuna di loro aveva dunque passato millenni dispersa nella pianura ed era poi stata raccolta e ricomposta nelle misteriose pile.