Magazine Cultura
Stamattina mi sono svegliato con un pensiero fisso. Avevo una cosa da fare, anche se non sapevo esattamente cosa. Qualcosa c'era, ecco. Ed era importante. Poi, alle sette in punto, mia mamma è entrata nella stanza, chiamando mio fratello per nome: Diego doveva ritornare a scuola, ma non io. Uno dei pochissimi pregi dell'università, ho realizzato, ad occhio e croce. L'università... Ho pensato a questo, sono sprofondato di nuovo nel cuscino e ho poltrito ancora. Reagisco così allo stress. Più dovrei essere attivo, più dormo. Più dovrei studiare, più mi specializzo nella nobile e antica arte del perdere tempo. Ho messo i piedi giù dal letto qualche tempo dopo, inforcato gli occhiali che – coricandomi – infilo sempre nelle ciabatte sistemate ai lati di un letto a castello che ormai non è più così alto e, facendo colazione, davanti alla mia tazza di latte e tristissimi corn flakes, ho iniziato a rivedere schemi ed appunti. Infilato tutto in quella lavastoviglie rossa che emette sempre e comunque strani borbottii, ho iniziato a sottolineare un nuovo saggio di uno dei miei tre libri di Storia del Cinema, armato di una matita ben appuntita e di un vecchio biglietto del treno. Perché a casa mia non abbiamo nemmeno una comune squadretta e sottolineo con quello, sì. E perché a Febbraio ho il primo esame: prenotato nel cuore della notte, con la follia e l'avventatezza di un kamikaze con lo zaino in spalla, che, per il nuovo anno, ha propositi assurdamente ingenui per uno che, ad aprile, compirà vent'anni tondi tondi. Mentre, in TV, Forum dava il peggio di sé, con una causa esilarante che – in realtà – era un vero e proprio lancio pubblicatio delle Cinquanta Sfumature di Grigio, ho pranzato in fretta e mi sono concesso, prima di iniziare una nuova sessione di studio più o meno intenso, una pausa al computer. In realtà, tra un appunto e l'altro, con la scusa di dover cercare qualcosa di urgente su Google, c'avevo abbondantemente perso tempo già prima. Quando il cazzeggio è un'arte illustre. Rispondendo alla mail di una casa editrice, ho parlato del mio blog, come faccio tante volte e come tante volte farò. Ho scritto a un lontano e sconosciuto addetto stampa che era la mia seconda casa, il luogo d'incontro con i miei più grandi amici e che, in un pomeriggio di solitudine, con mio padre che mi dava consigli e input preziosi, l'avevo fondato due anni fa. Due anni fa... Il calendario mi diceva che, oggi, era il 7 Gennaio. Che oggi, se la matematica non è un'opinione, sarebbero stati 730 giorni di noi – ancora in contatto, ancora compagni virtuali, ancora insieme. Io, senza la scuola a scandire più i miei ritmi, avevo perso il conto dei giorni, e mi sono sentito così in colpa. Mi sono insultato, tolto quell'imbarazzante pigiama a rombi che era diventato la mia seconda pelle e messo al computer. Non con i miei abiti migliori, ma con una dignitosissima tuta grigia e con un felmone blu con una faccina sorridente sopra: io sono questo. Senza eleganza, senza un post già preparato, senza una lista di persone da ringraziare, ma questo. Mosso soltanto dalla voglia pazzesca, sincera e naturale di sentirvi vicini, nel giorno di un mese troppo lungo, ma che accoglie – tra le sue giornate fredde, deprimenti e brevi – il nostro secondo anniversario: l'unica cosa bella. Sicuramente l'unica mia cosa bella. Di parole ne scrivo tante, ma per una volta penso che dilungarmi non sarà necessario. Non ci sono concetti da spiegare, non ci sono sentimenti da esprimere: voi sapete già tutto, e da sempre. Rivolgo i miei ringraziamenti più vivi a chi sa il perché. A chi ha fatto di questo piccolo blog la cosa più bella che ho, in assoluto. Vi adoro. Quindi, lontani e vicini, brindiamo a un altro anno di noi. All'abbraccio di gruppo più grande che i Guinnes dei primati contemplino. ♥
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