di Giuseppe Leuzzi. La pace di Vestfalia, da cui qui si parte, è inevitabile, Kissinger è pur sempre un vecchio trattatista. Studioso della balance of power, nostalgico del Congresso di Vienna, il suo studio di dottorato, di cui non manca mai di fare menzione. Ma prima di Vienna, e non famigerato, viene l’equilibrio di potenza “vestfaliano”, il primo e più durevole tra gli Stati nazionali novellamente costituiti in Europa, col riconoscimento e la definizione del concetto di sovranità – senza contare che fu il capolavoro del cardinale Mazzarino, lo statista per eccellenza, come Kissinger lo concepisce. Nel mondo nuovo post-ideologico e globalizzato ci vorrebbe una Vestfalia della globalità, un ordine mondiale. Kissinger lo intravede, e sa anche come gli Usa possono gestirlo – il punto di vista è naturalmente americano. Nell’interesse proprio e di ogni altro, è ovvio, altrimenti nessuna “pace” tiene.Kissinger meeting with President Ronald Reagan in the White House family quarters, 1981
Di nuovo dunque cosa ci sarebbe? Che Kissinger a 92 anni è sempre lucido, miglior analista dei fatti internazionali? No, almeno due punti fanno questo libro diverso.
La novità è il posto che Kissinger assegna all’opinione pubblica. A quarant’anni dalla sconfitta in Vietnam, da molti addebitata al “fronte interno”, alla tensione antibellica che fotografi e televisioni montarono implacabili, in America, contro la guerra americana in Vietnam. Qui l’allarme è preventivo. Le opinioni pubbliche sono sempre eccessive, nella militanza come nella passività, ma oggi sono qualitativamente diverse, e non per il meglio. Sono praticamente senza giudizio: l’“interazione quasi costante con uno schermo durante tutto il giorno” che “televisione, computer e smartphone formano”, è inaffidabile. Per “la sua enfasi sul fattuale piuttosto che sul concettuale, su valori plasmati dal consenso piuttosto che dall’introspezione”, dal giudizio. Fattuale per il realista politico è superficiale: il vizio della navigazione oggi rimette in gioco tutti i dati della partecipazione, o controllo democratico. Non solo sugli eventi internazionali, sempre complessi, ma su ogni decisione di politica nazionale, dalle elezioni presidenziali alle scelte locali. Si perdono “la conoscenza della storia e della geografia”, e il senso comune, “la mentalità necessaria per percorrere sentieri politici poco battuti”.
Con questo limite, se esso non dilagherà sugli sviluppi internazionali, un ordine mondiale tuttavia si prospetta. Con al centro sempre gli Stati Uniti – nella “pax americana” cioè, che Kissinger mai pronuncia, insieme lenta e vincolante. Come un condominio multilaterale, allargato alle potenze asiatiche, Cia, India, Giappone, e a una voce latino-americana. Se la balance of power, Vienna-Vestfalia, è il pilastro dottrinale del Kissinger studioso, il multilateralismo è l’opera sua di statista da cinquant’anni, da quando nel 1969 fu associato alla Nsa, la National Security Agency, e poi al dipartimento di Stato. Teorizzato nel 1975-76, subito dopo la crisi del petrolio, è rilanciato ora su scala mondiale. Senza l’Europa.
Oggi come allora, infatti, nel 1975-76, in entrambe le redazioni del suo multilateralismo, Kissinger non fa parola dell’Europa. L’Europa è, come sempre, assente dala sua geopolitica. Forse in subordine al transatlantismo, che però è dato più per scontato che professato. E comunque non come soggetto autonomo. Se non si può dire dunque una novità, l’esclusione dell’Europa dal concerto mondiale delle potenze è il secondo punto non scontato di questo “ordine mondiale”. Mancante, magari ancora presente e ingombrante ma senza una sua propria funzione.
Un multilateralismo, con assenza inclusa dell’Europa, che è lo stesso che si prospetta a Pechino, va aggiunto, all’altro estremo del manifesto globale – è un merito di Kissinger, un demerito? Anche a Pechino l’ordine americano è assunto nei fatti, non contestato. In un quadro multilaterale: Usa, Cina, India, America Latina (Brasie-Messico). Con un dubbio, se ci sarà una “potenza Europa”.
Una lettura che è una ventata di rinfrescante conservatorismo: Kissinger sarà stato l’ultimo maestro dell’arte diplomatica, ossia della politica intesa a tenere i popoli fuori della guerra. Lo studio e l’applicazione diplomatica sono in bassa stima, in questa epoca di wilsonismo a perdere, di moralismo e superficialità. Mentre le insidie sono dietro l’anglo.
L’esame di una questione specifica, l’armamento nucleare dell’Iran, basta da solo a far capire la posta in gioco. L’Iran è un grande paese, ricorda Kissinger, di lunga e densa tradizione e cultura, con ambizioni di potenza regionale radicate e robuste, contro un mondo arabo che per più aspetti ha sempre considerato e considera avverso: religiosi, etnici, militari. I quarant’ani di militantismo khomeinista hanno radicalizzato questo scontro: con l’Irak, col sunnismo in Libano e Siria, e ora nello Yemen, contro l’Arabia Saudita e gli Emirati del Golfo. L’armamento nucleare è inteso a sancire la rivincita. Ma allora la proliferazione sarebbe incontrollabile: gli arabi confinanti non vorranno restare indietro. Kissinger non ne fa tanto un problema di Israele, d’una reazione israeliana (Israele è, come l’Europa, la grande assente dai suoi scacchieri), ma di reazione del sunnismo, nel Golfo, nel Medio Oriente, Egitto compreso, in Pakistan. Una questione che per un lettore qualsiasi può sembrare marginale, e invece no.
Su questo tema Kissinger è tornato un mese fa sul “Wall Street Journal” con un’analisi spietata dell’accordo che avrebbe chiuso la vicenda, cofirmata dal segretario di Stato di Reagan George Shultz. Obama ha buone intenzioni. Ma l’Iran ha rovesciato la trattativa, “mescolando abilità diplomatica e sfida aperta alle risoluzioni Onu”. “Per vent’anni, tre presidenti di entrambi i maggiori partiti hanno sostenuto che l’armamento nucleare iraniano era contrario agli interessi americani e globali”, l’accordo dà all’Iran “questa possibilità, anche se non piena per dieci anni”. Senza peraltro controlli reali praticamente impossibili in “un paese vasto e con grandi possibilità di camuffamento”. Senza possibili contromisure: le sanzioni che ora sono state levate saranno difficili da reimporre all’Onu, e potrebbero isolare gli Stati Uniti più che l’Iran. L’accordo riconosce all’Iran la capacità e il diritto all’arricchimento dell’uranio, che era ciò che si voleva prevenire: “L’Iran ha moltiplicato le centrifughe da 100 all’inizio del negoziato dodici anni fa a quasi 20 mila”.
Henry Kissinger, Ordine mondiale, Mondadori, pp. 405, ril., € 28,