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Sedotta e abbandonata – Pietro Germi, 1964

Creato il 25 aprile 2014 da Paolo_ottomano @cinemastino

sedottaeabbandonata-locandinaSedotta e abbandonata (Pietro Germi, 1964, sceneggiato con lo stesso regista e Luciano Vincenzoni sulla base di un soggetto di Age e Scarpelli) è il film in cui emerge più acuta la satira della società, intesa come insieme di persone accomunate da una certa tradizione culturale ma considerata anche come istituzioni, che invece di smussare gli eccessi della cultura popolare ne giustificano le aberrazioni. Pro­prio questo paradosso è il perno del film: la legittimità del delitto d’onore, scu­sato senza troppi rimorsi sia dallo Stato sia dalla Chiesa. Secondo il codice pe­nale (1964), infatti, un uomo che uccide l’amante di sua moglie – o tutte le possibili varianti connesse a questo reato – rischia di scontare solo pochi anni in carcere, perché l’attenuante dell’ira causata dalla scoperta improvvisa e dall’omicidio non premeditato, è sufficiente per ridurgli la pena. È pure suffi­ciente per condurlo in paradiso, se accompagnato da un pentimento la cui sin­cerità resterebbe comunque incerta. Non è della sostanza che si cura la reli­gione cattolica, per com’è raccontata in questo film, ma della forma che as­sume spesso caratteri morbosi: voler sapere i dettagli della confessione di una ragazza, per esempio, già fin troppo imbarazzata a raccontare la sua intimità a un prete. Poche differenze corrono tra la società “civile” e la sua guida spirituale, entrambe bigotte, integraliste e poco comprensive della fragilità umana.

Su questa base nasce e cresce una creatura che si deforma un minuto dopo l’altro, in cui ogni personaggio rappresenta una cellula malata di un organismo autoimmune. In breve, la storia è questa. Agnese (Stefania Sandrelli) è incinta di Peppino (Aldo Puglisi), fidanzato ufficiale della sorella. Per coprire il diso­nore che colpirebbe la sua famiglia se il paese lo scoprisse, il padre di Agnese (Don Vincenzo / Saro Urzì) elabora un piano che si complica strada facendo e che sfocia nella decisione fatale: commissionare a suo figlio Antonio (Lando Buzzanca), fratello di Agnese, il delitto di Peppino. Fallito anche questo tenta­tivo, rimane una sola scelta basata su un altro principio cardine della mentalità paesana da Nord a Sud, qui simboleggiata dalla Sicilia: il matrimonio estingue ogni reato. Peppino dovrà fingere di rapire Agnese, davanti a tutti i compae­sani, per essere poi costretto a sposarla e a salvare l’onore della famiglia della sposa, abbandonando però definitivamente la propria dignità.

I punti di forza di questa sceneggiatura sono tanti: il soggetto è attuale e scottante per l’epoca, e lo sarebbe anche adesso, con buona probabilità; la ca­ratterizzazione dei personaggi tragicomici, crudeli e ingenui insieme, rimane in equilibrio tra la satira, la parodia e la verità: parodia per chi non conosce da vi­cino quella realtà, e verità per chi ci è abituato; l’intreccio complesso e ancora più complicato nella parte finale vive di un’alternanza tra ritmi blandi e accele­razioni, che paiono condurre alla risoluzione di un conflitto in un certo modo ma cambiano improvvisamente rotta, raggiungendo ancora una volta il con­nubio aristotelico: svolta inaspettata ma necessaria.

Paolo Ottomano


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