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Dialoghi da Il Gattopardo, di Visconti

Creato il 14 aprile 2022 da Gliscrittori
Dialoghi da Il Gattopardo, di Visconti

Cinema Di Tamara Marcelli. Da Il Gattopardo di Luchino Visconti, pillole di cinema: il dialogo tra Don Fabrizio (Burt Lancaster) e il funzionario piemontese Chevalley (Leslie French).

Il Gattopardo è un film drammatico di Luchino Visconti, uscito per la prima volta il 27 marzo 1963 al Cinema Barberini di Roma. Nel cast, tra gli altri, Burt Lancaster, Alain Delon, Claudia Cardinale, Terence Hill, Giuliano Gemma, Ottavia Piccolo e Leslie French. La sceneggiatura è di Suso Cecchi D'Amico, Pasquale Festa Campanile, Luchino Visconti, Enrico Medioli e Massimo Franciosa, la fotografia di Giuseppe Rotunno, con le musiche di Nino Rota.
Numerosi i premi vinti, tra cui la Palma d'Oro al Festival di Cannes al regista Luchino Visconti, il David di Donatello al produttore Goffredo Lombardo il Premio Feltrinelli nel 1963, il Nastro d'Argento per fotografia, scenografia e costumi.

Le vicende del Principe don Fabrizio di Salina (Burt Lancaster) e della sua nobile famiglia, hanno come sfondo la storia risorgimentale dal 1860 con l'avanzata garibaldina, al momento del cambiamento della società nel 1910.

La parabola discendente dell'aristocrazia siciliana, con la perdita di valori antichi e morali, pervade tutto il film, fino alla consapevolezza raggiunta dal protagonista durante il grandioso ballo finale nella residenza estiva di famiglia.
Noi fummo i gattopardi, i leoni. Chi ci sostituirà saranno gli sciacalli, le iene. E tutti quanti, gattopardi, leoni, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra.
Il film è tratto dall'omonimo romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (Palermo, 23 dicembre 1896 - Roma, 23 luglio 1957), nobile scrittore italiano, principe di Lampedusa dal 1934 al 1957. La prima edizione del romanzo Il gattopardo uscì nel 1958 con la casa editrice Feltrinelli ed ebbe notevole successo. Vinse il Premio Strega nel 1959.

Dialogo di Don Fabrizio (Burt Lancaster) con il funzionario piemontese Chevalley (Leslie French) che gli offre la nomina a senatore del nuovo regno d'Italia.

Don Fabrizio: «Sono un esponente della vecchia classe, fatalmente compromesso con il passato regime, e a questo legato da vincoli di decenza, se non di affetto. La mia è un'infelice generazione, a cavallo tra due mondi e a disagio in tutti e due. E per di più, io sono completamente senza illusioni. Che se ne farebbe il Senato di me, di un inesperto legislatore cui manca la facoltà di ingannare se stesso, essenziale requisito per chi voglia guidare gli altri? No Chevalley, in politica non porgerei un dito, me lo morderebbero».
Chevally: «Principe, non posso crederlo, ma proprio sul serio lei rifiuta di fare il possibile per alleviare lo stato di povertà materiale e di cieca miseria morale in cui giace il suo stesso popolo?»
Don Fabrizio: «Siamo vecchi, Chevalley. Molto vecchi. Sono almeno venticinque secoli che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche ed eterogenee civiltà. Tutte venute da fuori, nessuna fatta da noi, nessuna che sia germogliata qui. Da duemilacinquecento anni non siamo altro che una colonia. Oh, non lo dico per lagnarmi, è colpa nostra. Ma siamo molto stanchi, svuotati, spenti».
Chevalley: «Ma Principe, tutto questo adesso è finito. La Sicilia non è più una terra di conquista ormai, ma libera parte di un libero Stato».
Don Fabrizio: «L'intenzione è buona, però arriva tardi. Il sonno, caro Chevalley, un lungo sonno, questo è ciò che i siciliani vogliono. Essi odieranno sempre tutti quelli che vorranno svegliarli, sia pure per portare loro i più meravigliosi doni. E, detto tra noi, io dubito sinceramente che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel suo bagaglio. Da noi ogni manifestazione, anche la più violenta, è un'aspirazione all'oblio. La nostra sensualità è desiderio di oblio. Le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte. La nostra pigrizia, la penetrante dolcezza dei nostri sorbetti, desiderio di voluttuosa immobilità, cioè ancora di morte».
Chevalley: «Principe... Principe, non le sembra di esagerare? Io stesso ho conosciuto a Torino dei siciliani che sembravano tutt'altro che dormiglioni».
Don Fabrizio: «Non mi sono spiegato bene, mi dispiace, Chevalley. Ho detto "siciliani", dovevo dire "Sicilia". Quest'ambiente, la violenza del paesaggio, la crudeltà del clima, la continua tensione in ogni cosa...»
Chevalley: «Ma il clima si vince, il paesaggio si può modificare, il ricordo dei cattivi governi si cancella. Io sono certo che i siciliani vorranno migliorare».
Don Fabrizio: «Non nego che alcuni siciliani, trasportati fuori dell'isola, possano riuscire a svegliarsi. Ma devono partire molto giovani, a vent'anni è già tardi, la crosta si è formata».
Chevalley: «Ma se gli uomini onesti come lei si ritirano, la strada rimarrà alla gente senza scrupoli e senza prospettive. Appunto ai Sedara! E tutto sarà di nuovo come prima, per altri secoli. Ascolti la sua coscienza, Principe, e non le orgogliose verità che ha detto. Principe, la prego, cerchi di collaborare».
Don Fabrizio: «Siete un gentiluomo, Chevalley, e considero un privilegio avervi conosciuto. Voi avete ragione in tutto, tranne quando dite che i siciliani certo vorranno migliorare. Non vorranno mai migliorare perché si considerano perfetti. La vanità in loro è più forte della miseria. O stella, o fedele stella quando ti deciderai a darmi un appuntamento meno effimero, lontano da tutto, nella tua regione di perenne certezza?»



Tamara Marcelli


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