Yuri Herrera è un grande scrittore. È bello poter iniziare così questa recensione. Ed è bello poterlo fare senza dubbi o esitazioni. Se il primo romanzo, Trabajos del reino (La ballata del re di denari, laNuovafrontiera, 2011) ci aveva piacevolmente sorpresi, il secondo romanzo Señales que precederán al fin del mundo (Segnali che precederanno la fine del mondo, laNuovafrontiera, 2012) rappresenta una splendida conferma. La conferma della solidità e della scrittura brillante e originalissima di un autore considerato tra i maggiori talenti del panorama letterario latino-americano.
Segnali che precederanno la fine del mondo è la storia di Makina, bella e sveglia ragazza di un villaggio messicano, inviata dalla madre a cercare il fratello, dall’altro lato del confine. Esso tocca i topoi del viaggio e della ricerca, durante i quali Makina, come una sorta di Alice contemporanea, entra in contatto con i personaggi più strani e disparati, scopre luoghi indescrivibili e incomprensibili e in questi vede il tormento dell’emigrazione clandestina. Attraverso nove capitoli, che rappresentano le nove dimensioni del Mictlan, viaggio spirituale azteco, si compie il percorso di resurrezione di Makina, il passaggio da un mondo all’altro, da una cultura a un’altra; Makina era «partita per tornare», ma comprende che una volta varcato il confine, tornare indietro è impossibile. Come per il fratello, chi parte non ritorna, perché a quel punto il mondo dal quale si è venuti è finito per sempre. Al termine del viaggio di espiazione, la protagonista otterrà la cittadinanza statunitense, per scoprirsi per sempre purificata e dannata allo stesso tempo. A quel punto non sarà più niente, non apparterrà più a nessuno; starà per sempre a metà tra due mondi, tra due idee, tra due culture («Ma contemplando la calma tesa della notte, l’oscurità punteggiata di scintillii, qua e là, indecifrabili, sentendo quel silenzio mesto, si chiese che diamine stesse facendo là fuori: cosa cresce o cosa marcisce mentre si guarda da un’altra parte. Cosa comparirà, si chiese a bassa voce, e intanto giocava a scoprire, passando accanto a quel lampione, o a quello, o a quell’altro, cosa stesse succedendo nell’ombra»).
Yuri Herrera è nato in Messico, ma ha studiato e ora insegna negli Stati Uniti. È cresciuto al limite tra due mondi, due culture e due lingue diverse. E questi due mondi stanno al centro della sua opera; la ispirano e la alimentano. Herrera sembra legato ai problemi politici e sociali della sua terra in maniera viscerale, in essi si tuffa con necessità quasi esistenziale, con uno stile personalissimo e inclassificabile. La critica lo associa (Claudia Bonadonna, per esempio, lo fa in un’intervista pubblicata sul numero 99 della rivista «Pulp») alla categoria dei “narcoscrittori”, cioè quella larga schiera di giovani scrittori sudamericani che, attraverso la narrativa, hanno documentato, raccontato e descritto, in questi anni, gli orrori, le difficoltà e le contorte vicende legate al traffico di droga nei Paesi Latinoamericani. Scrittori che conoscono la frontiera e conoscono l’abisso che separa il continente americano tra Nord e Sud.
La frontiera è un tratto di demarcazione. In letteratura è la barriera metaforica che separa due dimensioni, narrative, esistenziali, epistemologiche, personali; un prima da un dopo, un al di qua da un al di là, la vita dalla morte. In questo caso la frontiera rappresenta un confine concreto e reale, l’asse geografico che divide due nazioni. È la linea che separa in due un agglomerato urbano; da un lato El Paso, nel Texas occidentale, soleggiata e caotica cittadina statunitense, dall’altro lato l’inferno di Ciudad Juárez, la città con il più alto tasso di criminalità e di omicidi al mondo. Yuri Herrera attraversa costantemente questa frontiera, reale e metaforica, con la sua narrativa, per raccontarla ai lettori. Narcotraffico ed emigrazione sono i temi dei suoi primi romanzi, a cui presto se ne aggiungerà un terzo, per formare una storta di trilogia del confine, vicina al grande Cormac McCarthy. Solo che lo stile di Yuri Herrera è completamente diverso da quello del maestro statunitense. In lui la realtà si sfalda e assume contorni di favola. I suoi personaggi hanno uno spessore notevolissimo; eppure è uno spessore sempre tutto narrativo, che nasconde sottopelle una semplicità fiabesca, un lato innocente e leggero, capace di mistificare l’orrore, acquietare la paura, controllare lo sfacelo. Per questo Goffredo Fofi, in un’intervista sul numero 150/151 della rivista «Lo Straniero», accosta lo scrittore messicano al “real maravilloso”, concetto abbastanza vicino al “realismo magico” che contraddistingue da anni la narrativa sudamericana. Nelle opere di Herrera tutto è vero e reale, ma in fondo niente lo è davvero. Egli rientra in tutte le etichette, eppure non appartiene a nessuna.
Segnali che precederanno la fine del mondo è un titolo potentissimo, molto evocativo. Ci sono dei segnali da una parte e la fine del mondo dall’altra. E in mezzo sta quel verbo precedere, che funge da linea di confine; indica un movimento, un passaggio. A questo punto mi piacerebbe raccontare una vicenda in qualche modo significativa. Sono su un aereo e poco prima di decollare poggio il nostro libro sul sedile. Il tipo accanto a me, leggendo il titolo, si meraviglia per quella che ironicamente definisce una «lettura leggera». Sorride e dice, «non si preoccupi, io la capisco. Ho una casa editrice che pubblica libri esoterici». Sorrido di rimando. Ma non c’è tempo per spiegare, l’aereo ormai è lanciato sulla pista di decollo. Non avevo tempo per spiegargli che il romanzo di Yuri Herrera non è per nulla un romanzo apocalittico, non c’è nessun messaggio esoterico e nessun cataclisma fantascientifico. È invece la storia di una morte e di una rinascita metaforiche, di un ipotetico rito iniziatico. È il racconto di una trasformazione reale e quasi spirituale, vissuta come rinascita e come nuova possibilità, ma anche come tragedia. Perché ogni cambiamento radicale, nella nostra vita, presuppone una catastrofe, ogni nuova costruzione presuppone un crollo, una fine.
In questo percorso, ciò che colpisce più di ogni altra cosa, è la bravura di Yuri Herrera, il suo straordinario talento nel trasfigurare la realtà misera dei clandestini messicani in un mondo favoloso e meraviglioso. La sua prosa è straordinaria, personalissima, vigorosissima. Anch’essa cammina costantemente su un limite che spesso varca per sconfinare nella poesia («[…] si chiese come fosse possibile che al mondo, certi paesi, alcune persone, sembrassero eterni se in fondo tutto era come quel minuscolo cristallo di ghiaccio: irripetibile, prezioso e fragile»). Non a caso, per entrambi i romanzi, la casa editrice ha scelto di ricorrere alla traduzione d’autore di Pino Cacucci. Yuri Herrera racconta l’inenarrabile rendendolo soffice, fiabesco, color pastello. Come ha dichiarato in un’intervista uscita su «La Repubblica» del 16 settembre 2012, per lui la letteratura non ha il compito di sostituire la realtà, non deve riportala fedelmente, non deve trasformarsi in pornografia, mostrare il sangue, le macerie, i corpi in decomposizione. La letteratura ha il compito di filtrare il mondo e trasfigurarlo, di renderlo commestibile e digeribile. Non deve essere come la vita, deve essere di più; più candida, più pura, più onesta. La letteratura deve concedersi il lusso di apparire irreale. Ed è forse così che potrà raccontare a fondo la realtà.
La nota a margine è che Obama si sta impegnando in questi mesi a riconfigurare le leggi che regolano l’immigrazione e il diritto di cittadinanza, con un consenso quasi bipartisan. Perché gli Stati Uniti, anche i conservatori, cominciano a capire l’importanza degli immigrati e il rispetto che meritano. Herrera l’aveva già detto nel 2009 (anno di pubblicazione del romanzo in Messico). Perché la letteratura arriva sempre prima. Quando essa nasce dai grandi scrittori. Ed Herrera è un grande scrittore.
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