Il 26 e 27 maggio prossimi gli egiziani torneranno a votare per la sesta volta in poco più di tre anni. Stavolta per eleggere il successore di Mohammed Morsi, il Presidente islamista democraticamente eletto nel 2012 e deposto il 3 luglio 2013 dal colpo di Stato coordinato proprio da uno dei contendenti, nonché favorito delle prossime elezioni, Abdel Fattah Al-Sisi. I risultati del primo turno verranno annunciati il 5 giugno, mentre il secondo si terrà il 16 e 17 giugno.
Un referendum costituzionale a marzo 2011; elezioni presidenziali alla fine dello stesso anno stravinte da Fratelli Musulmani e Salafiti; nuove presidenziali tra maggio e giugno 2012 vinte da Morsi; nuovo referendum costituzionale di fine 2012 vinto dagli islamisti e, infine, l’ultimo referendum costituzionale di gennaio 2013 per emendare la costituzione dell’ormai deposto Morsi. Dopo quasi 30 anni ininterrotti di regime, sembra che gli egiziani abbiano voluto rifarsi esercitando diritti e poteri che per troppo tempo erano stati loro negati. Così, si sono alternati tre presidenti in tre anni: Mubarak, Morsi e il presidente ad interim Adly Mansour. Il quarto è in attesa di essere eletto. Le procedure elettorali, però, non implicano di per sè cambiamenti profondi e strutturali e faticano a tradursi in una realtà che sia genuinamente democratica. È per questa ragione, che dopo 3 anni di sconvolgimenti e schede elettorali, gli egiziani sono ancora in piazza e si ritroveranno, a breve, in fila alle urne.
Rispetto alle presidenziali del 2012, in cui 13 candidati si contesero il voto popolare, quest’anno gli egiziani potranno scegliere solo tra l’ex Ministro della Difesa ed ex Capo di Stato Maggiore dell’esercito Abdel-Fattah Al-Sisi e il suo unico rivale, politico nasserista di lungo corso e membro del movimento che ha preparato la strada per la rivoluzione del 25 gennaio 2011, Hamdeen Sabahi, che nelle elezioni del 2012 era arrivato terzo con il 20,7% dei voti.
Abdel Fattah Al-Sisi, nel luglio del 2012, venne scelto dal neo-eletto presidente Morsi come Ministro della Difesa al posto dell’allora in carica Generale Tantawi, malvisto dalla piazza per la sua vicinanza a Mubarak e agli USA. Allora, ci fu chi ipotizzò che i Fratelli musulmani avessero trattato con i generali per non intralciarsi a vicenda. Morsi avrebbe ottenuto in cambio l’appoggio dell’esercito contro l’avversario Ahmed Shafik, ex Primo Ministro di Mubarak. È possibile che i Fratelli Musulmani abbiano considerato Al-Sisi come il male minore, visto che, diversamente da molti militari, è un musulmano osservante, che digiuna a Ramadan, ha una moglie velata e un cugino legato ai Fratelli. La pessima performance dei Fratelli Musulmani, esasperata dal ruolo svolto dietro le quinte da esercito e polizia, ha creato un malcontento diffuso nella maggioranza degli egiziani, direttamente proporzionale alla speranza riposta ora nel 59enne Al-Sisi, che destituendo Morsi ha vestito – e continua a vestire tuttora – i panni del liberatore per la maggior parte del popolo egiziano. Molti, imprenditori in testa, considerano ormai la stabilità più importante della libertà. I buoni rapporti con gli stati ricchi del Golfo, come l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi e il Bahrein (tutti favorevoli al golpe), garantiranno l’arrivo di altri aiuti ed investimenti. L’ex Generale ha anche il merito di aver retto di fronte alle pressioni USA, che dopo aver criticato l’estromissione di Morsi hanno trattenuto gli aiuti (di recente sbloccati). Per queste ragioni Al-Sisi è spesso paragonato a Nasser, anch’egli artefice di un colpo di stato nel 1952 – contro la monarchia in quel caso – e di una campagna contro i Fratelli musulmani. Al-Sisi, inoltre, sostiene apertamente i diritti dei Copti ad un eguale cittadinanza e molti cristiani gli sono grati per l’estromissione dei Fratelli musulmani, poiché durante il loro breve governo si sono verificati diversi attacchi di matrice settaria, tra cui il primo contro la principale cattedrale copta. Anche la mancanza di una chiara affiliazione politica di Al-Sisi potrebbe giocare in suo favore, dipingendolo come leale alla nazione egiziana piuttosto che ad una parte politica.
Solo a marzo Al-Sisi ha messo fine alle speculazioni sulla sua possibile candidatura, annunciando che aveva deciso di abbandonare la vita militare per rispondere alla chiamata del popolo e competere nelle elezioni presidenziali. La sua prolungata assenza dai media ha portato molti a sostenere che fosse una scelta strategica per impedire alle opinioni politiche di Al-Sisi di compromettere la sua popolarità. Queste voci hanno avuto conferma quando, per la prima volta dal lancio della campagna elettorale il 3 maggio, Al-Sisi ha rilasciato un’intervista tv. Al centro egli ha posto la questione della sicurezza nazionale, promettendo di sconfiggere il terrorismo – che prospera soprattutto nel Sinai – e di garantire la sicurezza della nazione, a partire dalla guerra a tutto campo lanciata contro i Fratelli Musulmani, dichiarati organizzazione terroristica il 25 dicembre, poiché considerati responsabili degli attentati in Sinai e in altre parti del paese. Quando gli intervistatori hanno chiesto ad Al-Sisi di esprimersi in riguardo alla legge varata contro il diritto a protestare, l’ex Generale ha eluso la questione e ha chiarito che “protestare irresponsabilmente” può portare il paese nel caos anche se i manifestanti non ricorrono alla violenza, dimenticando che sono state proprio le proteste a portare l’esercito al potere nel 2011. L’ex Generale non sembra avere le idee chiare neanche su questioni urgenti come la crisi del settore energetico e l’istruzione. Interrogato, poi, sulla recente visita in Russia, sulla nomina del suo parente Mahmoud Hegazy a Capo dell’esercito e sulla sua posizione nei confronti di Hamas, il candidato alla presidenza non ha risposto. Indicativo è stato anche il silenzio seguito alla domanda circa la sua posizione su un eventuale controllo parlamentare sull’esercito, dopo il quale Al-Sisi si è limitato ad affermare che l’esercito è una grande istituzione.
Il rivale
Protagonista della rivoluzione contro Hosni Mubarak, Sabahi ha dato avvio alla sua campagna elettorale con un tour di comizi nelle regioni più periferiche d’Egitto al fine di portare alle urne anche i più disinteressati. Egli guarda soprattutto ai giovani, richiamandoli alla necessità di difendere gli ideali delle rivoluzioni del 25 gennaio e del 30 giugno. Il rischio, se Al-Sisi dovesse vincere, sarebbe, secondo Sabahi, il ritorno allo status quo ante. In particolare egli si oppone al reintegro dell’elite corrotta dell’era Mubarak nella politica egiziana. Il fatto che alcuni dei sostenitori di Mubarak si siano schierati con Al-Sisi ha sollevato dubbi su quanto sia forte la loro influenza e su quale sarà il loro ruolo futuro. Con il suo slogan Uno di noi, Sabahi potrebbe diventare il candidato dei poveri, caratteristica che lo avvicina all’ex Presidente brasiliano Lula da Silva, da cui dice di trarre ispirazione. Come lui, infatti, Sabahi proviene dalla classe lavoratrice e si propone di lottare contro l’ineguaglianza sociale, di svecchiare il settore pubblico e combattere la privatizzazione. Dopo decenni di politiche neoliberiste, la sua agenda politica di sinistra potrebbe attirare le speranze di molti. La proposta di un salario minimo elevato a 171 dollari potrebbe conquistargli le simpatie dei sindacati, di recente attivi in una serie di scioperi. Sabahi, pur considerando Nasser un modello per la priorità data alla giustizia sociale, riconosce i limiti di quel periodo della storia egiziana e i pericoli insiti nelle dittature militari e nella militarizzazione dello stato. Inoltre, ha votato per la revoca della legge sulle proteste dello scorso novembre, al contrario di Al-Sisi, che ha sostenuto la legge in quanto necessaria alla salvaguardia dello stato. In politica estera, mira ad intensificare i rapporti con Turchia e Iran per svincolare l’Egitto dalla dipendenza dagli USA, in opposizione ai legami con Arabia Saudita e monarchie del Golfo privilegiati da Al-Sisi assieme alla ricostruzione dei legami con USA e UE.
Secondo una serie di sondaggi effettuati da Ahram Online, anche gli scettici potrebbero scegliere di votare Sabahi nella speranza di porre le basi per una futura piattaforma di opposizione ad Al-Sisi, simbolo dell’autoritarismo militare. D’altra parte, molti credono che Sabahi sia il candidato segreto dei Fratelli musulmani, mentre altri, al contrario, sostengono che sia un fantoccio messo in corsa dallo stato solo per dare legittimità alle elezioni. Alcuni difensori dei diritti umani, islamisti e attivisti laici, invece, incolpano Sabahi per essere rimasto a guardare mentre le autorità del governo ad interim reprimevano nel sangue le proteste precedenti al 30 giugno. Altri semplicemente non credono che Sabahi abbia le doti e l’esperienza necessarie a gestire l’Egitto in un momento così delicato. Infine, c’è anche chi è preoccupato dalle sue posizioni filo-palestinesi e dal criticismo verso gli USA.
I risultati dei voti degli egiziani all’estero del 21 maggio hanno dato un’anticipazione dell’ormai scontato risultato finale, tutto a favore di Al-Sisi, che si è conquistato il 95% degli scrutini. Anche gli schieramenti delle forze politiche egiziane sono in larga parte a suo favore, incluse le forze politiche nasseriste e di sinistra che avrebbero dovuto sostenere Sabahi. Tra queste troviamo forze tradizionali come il Partito nazionale progressista unionista, noto come Al-Tagammu, il Partito Arabo Nasserista e il partito di sinistra Tagamoa, uno dei pochi a cui era concesso di esistere nell’era Mubarak. Questa scelta viene motivata dall’abilità presunta riconosciuta all’ex Generale di ristabilire l’ordine e la stabilità in Egitto. Le forze liberali, come il Wafd Party e il Partito degli Egiziani liberi, fondato nel 2011 dall’imprenditore Naguib Sawiris, sono tutte a favore di Al-Sisi perchè ritengono che l’Egitto abbia bisogno di un leader forte in una fase delicata come quella attuale. Anche i salafisti del partito Nour, precedentemente allineato con la Fratellanza Musulmana, hanno votato per sostenere Al-Sisi per le stesse ragioni. Da ultimo, anche il Partito Nazional-democratico (NDP) dell’ex presidente Mubarak e le famiglie degli ex presidenti Anwar Sadat e Gamal Abdel-Nasser hanno annunciato di sostenere Al-Sisi.
Sabahi, al contrario, potrebbe godere del supporto dei giovani delle due rivoluzioni (gennaio 2011 e giugno 2013), oltre che del sostegno di altre forze minoritarie. Fra queste ricordiamo il Partito della Costituzione (Al-Dostour), fondato dopo la rivoluzione di gennaio da Mohamed El-Baradei – che ha poi abbandonato la politica; il partito Karama, co-fondato e presieduto da Sabahi fino alla sua candidatura alle presidenziali e il Partito Egiziano della Libertà, guidato dallo studioso e politico liberale Amr Hamzawy, uno dei più convinti critici della transizione post-Morsi. L’Alleanza popolare socialista ritiene Sabahi il difensore delle cause che essa stessa promuove (indipendenza nazionale e diritti dei lavoratori) e ha deciso di sostenerlo col favore di più del 90% dei suoi membri. I Rivoluzionari socialisti, la sinistra radicale, sostengono Sabahi, pur non condividendone le idee, per opporsi ad Al-Sisi, considerato il candidato della contro-rivoluzione, al quale bisogna sottrarre voti in ogni modo, così da poterli usare per costruire un movimento di opposizione.
C’è, poi, chi ha mantenuto le distanze lasciando il proprio elettorato libero di scegliere (il Partito egiziano social-democratico e il Fronte della via della Rivoluzione) e chi, invece, ha invitato gli elettori a boicottare le urne, come l’Alleanza Nazionale a sostegno della legittimità (NASL), guidata dai Fratelli Musulmani, il cui portavoce Magdy Karkar ha affermato che la candidatura di Al-Sisi alla poltrona di Morsi è la prova che quello dello scorso anno fu un vero e proprio golpe e che le elezioni siano, di conseguenza, illegittime, soprattutto alla luce delle violenze attuali e delle detenzioni di massa dei membri della Fratellanza. Anche il partito di centro Egitto forte, fondato dall’ex membro della Fratellanza Abdel-Moneim Aboul-Fotouh, ha deciso di boicottare le urne così come il Movimento dei giovani del 6 aprile.
Conclusioni
In un paese in cui le proteste popolari sono state determinanti nella caduta di due presidenti in 3 anni, ci si aspettano risultati decisivi in breve tempo dal prossimo vincitore, soprattutto in campo economico. Settore nel quale Al-Sisi non ha annunciato ancora alcun programma definito e che costituisce un problema pressante, a causa della moneta debole, dell’alto tasso di disoccupazione e di un debito pubblico sempre più vasto. Se non fosse per i soldi di Arabia Saudita e Kuwait, il paese sarebbe in bancarotta.
L’atmosfera nella quale si terranno le elezioni, inoltre, è tutt’altro che democratica. Secondo molti egiziani, i media e l’apparato statale stanno facendo campagna a favore di Al-Sisi, propagandando il concetto del “candidato della necessità”, ossia di Al-Sisi come l’unica figura in grado di salvaguardare le istituzioni statali dal collasso. Anche le elite e i burocrati presenti nelle istituzioni chiave dello stato non nascondono il loro favore per Al-Sisi, che se eletto permetterà loro di conservare il proprio potere. Il sistema giudiziario, inoltre, sta giocando un ruolo fondamentale liberando il campo da dissidenti scomodi attraverso le condanne e le incarcerazioni degli oppositori politici (in larga parte Fratelli musulmani o loro simpatizzanti). Neanche i giornalisti sono stati risparmiati, come nel caso di Abdullah Elshamy della tv Al Jazeera, in condizioni critiche a causa dello sciopero della fame intrapreso più di 3 mesi fa in segno di protesta contro la sua detenzione priva di accuse formali. La Guida Suprema dei Fratelli musulmani Mohamed Badie è stata condannata a morte il 28 aprile assieme ad altri 682 presunti sostenitori della Fratellanza dal Tribunale di Al Minya con l’accusa di aver ucciso un poliziotto il 14 agosto 2013 durante l’attacco alla stazione di polizia di Adwa. Secondo diversi testimoni, alcuni dei condannati non erano neanche presenti sul luogo dell’attacco nel momento in cui avvenne, compreso Badie. Le condanne non hanno risparmiato neanche gli attivisti laici e i manifestanti pacifici, colpiti da processi lontani da qualsiasi standard internazionale, cosa che ha suscitato anche la protesta da parte dei Rappresentanti Speciali dell’ONU, che hanno definito quanto sta accadendo nei tribunali egiziani una “parodia della giustizia”. Da quando l’esercito ha preso il potere a luglio scorso, almeno 16.000 persone sono state arrestate e circa 1.500 sono state giustiziate sommariamente dalle forze di sicurezza, mentre i feriti si contano in migliaia.
L’ipotesi di una riconciliazione con i Fratelli Musulmani appare irrealistica, considerate le ultime dichiarazioni da parte di Al-Sisi nell’intervista rilasciata alla CBC. Le parole del candidato non lasciano spazio a dubbi, quando afferma che la Fratellanza è destinata ad estinguersi, accusando gli islamisti di aver complottato almeno in due diverse occasioni per ucciderlo.
Appare subito evidente che a sostegno di Al-Sisi si trova un gruppo variegato e frammentato di forze politiche e sociali, disposte a superare divergenze ideologiche pur di vedersi assicurata la stabilità e la conservazione di futuri privilegi, mentre Sabahi ha dalla sua un gruppo sicuramente minoritario, ma più affine per visione ed obiettivi. Se, come pronosticato da ogni parte, sarà Al-Sisi ad avere la meglio è molto probabile che il governo dovrà ricorrere al pugno di ferro per far fronte sia a minacce interne, come un’eventuale forza di opposizione minoritaria ma compatta, che a minacce esterne come il terrorismo, che sembra ancora un problema lontano dall’essere risolto.
L’Egitto, che si appresta a votare, è diviso drasticamente tra chi sostiene Al-Sisi in chiave anti-islamista a costo di tornare all’autoritarismo militare e chi sostiene le forze armate con convinzione nel nome del ritorno all’ordine. Vi è anche chi, disgustato e disilluso sia dai Fratelli Musulmani che dai militari, non ha più intenzione di accettare passivamente un altro Faraone. Questa terza fetta di egiziani è ora consapevole del fatto che l’esercito ha sfruttato il malumore popolare contro la pessima prova politica dei Fratelli Musulmani del 2013 per riprendere le redini del potere mai di fatto abbandonato. Un potere che è prima di tutto economico, con un terzo dell’economia sotto il controllo delle forze armate, ma anche politico se si pensa che la Costituzione di fine 2012, con cui i Fratelli musulmani si erano inimicati la maggior parte degli egiziani per la svolta in senso islamista che essa comportava, aveva lasciato intatto il potere dei militari. L’esercito, che ha dimostrato per decenni di essere l’istituzione più forte e coesa in Egitto, ha ora nelle mani tutto il potere di chi è considerato dalla maggioranza l’unico in grado di riportare l’ordine e la stabilità. Nel frattempo, però, c’è chi si avvia già verso piazza Tahrir.
Nerina Schiavo, Università la Sapienza di Roma, è collaboratrice dell’IsAG