Mentre leggete il post come sottofondo musicale potete scegliere da Spotify Degrees of separation di Badly Drawn Boy ( uno dei miei cantanti preferiti) o se siete pigri potete cliccare direttamente sul link.
Una storia fa impazzire i salotti della New York bene: un ragazzo che si spaccia per Paul, uno dei figli di Sidney Poitier, si intrufola nelle casa dei coniugi Kittredge( Donald Sutherland e Stockard Channing), ricchi mercanti d’arte, dicendo di essere un compagno di studi dei loro figli ad Harvard. Il giovane si rivela un ottimo conversatore, acuto, intelligente e colto, capace di improvvisare una cena con quello che trova nel frigo. E’ un incantatore, un ragazzo modello, il figlio ideale che ogni genitore desidererebbe avere. Ma l’incantesimo durerà soltanto l’arco di una notte e il giovane al mattina apparirà per quello che è: un truffatore .
Nel mondo elegante e sofisticato della scintillante New York anche i Kittredge hanno dei problemi con i propri figli che imputano loro i danni derivanti dalle contraddizioni di chi vive all’interno delle proprie gabbie dorate, tra salotti di lusso, Kandinsky o porta inchiostri del XVIII secolo. Infatti il fantomatico “figlio di Sidney Poitier” , che assurgerà a vera e propria leggenda metropolitana, è pur sempre un impostore, un ragazzo di colore di cui non interessa sapere la storia, i motivi del suo disagio: è il protagonista di una storia che non va oltre la semplice aneddotica da salotto.
“Sei gradi di separazione” è una piece teatrale riadattata per il grande schermo, scritta da Jhon Guare, e si basa sulla teoria del sociologo Stanley Milgram di Harvard: sei passaggi di conoscenza bastano per arrivare a conoscere chiunque altro nel mondo. Questo è lo spunto per una riflessione sui problemi che riguardano l’identità e la morte dell’immaginazione, che viene argomentata brillantemente dal giovane Paul nel suo incontro con i Kittredge e credo che sia il momento migliore di tutto il film. In poche battute emerge una visione quasi pirandelliana dell’essere umano costretto a vivere in una sorta di dimensione schizofrenica in cui il nostro mondo interiore non corrisponde a quello che noi proiettiamo all’esterno. L ‘immaginazione è il mezzo attraverso cui abbiamo il coraggio guardarci per quello che in realtà siamo, al di là delle nostre maschere: da qui l’incomunicabilità che regna sovrana nella società in cui l’immaginazione “anziché essere il perno della nostra esistenza, oggi è il sinonimo di qualcosa che è totalmente al di fuori di noi, come la fantascienza, o, che so, l’uso delle fettine di mandarino o di arancia sulle braciole crude di maiale…”(cit. Paul-Will Smith)
Questo rimane uno dei miei film preferiti: ottima sceneggiatura, un cast di attori formidabile. Un testo teatrale a cui il regista Fred Shepisi è riuscito a dare il respiro di un vero e proprio film, un action movie di parole che attraverso i dialoghi mettono in moto un plot originale, costruito con studiati flashback, che non annoiano lo spettatore.
Inoltre questo film ha il merito di aver portato alla luce il talento dell’allora giovane Will Smith che con questa prova cinematografica ha dimostrato al mondo di non essere soltanto “Il principe di Bel Air”. Eppoi ha anche il merito di aver reso meno traumatico il rientro, il che non è poco.