In quegli anni Mosca era così lontana per me da farmi credere che i monti Urali fossero le colonne d’Ercole del XX secolo. Roman era troppo piccolo per ricordare quel 25 dicembre del ’91: fu la fine della Perestrojka, il Cremlino perse l’inquilino sognatore e illuminato Michail Gorbacev e la Russia acclamò il populista Yeltsin.
Roman è un ragazzo sveglio, un gran lavoratore. Dopo aver viaggiato e vissuto anche nel Nord Europa, ha deciso di ritornare nella sua Mosca, perché ha voglia di vivere nel suo Paese. Dalla gestione di un lavaggio d’auto è passato a quella di un ostello, dove si sforza di far sentire tutti a proprio agio.
Impiega poco a capire che non ho niente a che fare con gli italiani in viaggio qui per allacciare relazioni sentimentali con le ragazze russe.: “Non ho mai visto un divoratore di città come te con questa voglia matta di mescolarsi alla comunità locale”.
Io e Roman ci ritroviamo in piena notte sotto le stelle dell’area periferica di Tishinsky. Io, stanco morto dopo le mie scorribande nella capitale russa, e lui, sul ciglio della porta con la birra, condividiamo ritagli di vita vissuta. Roman ride a crepapelle quando gli racconto che, nella mia Italia degli anni ’50, i preti diffondevano la notizia che “i comunisti in Russia mangiavamo i bambini”. Su un punto io e Roman concordiamo: i “luoghi” non li fanno “i governanti” ma le “persone” che ci vivono.
Roman rappresenta la nuova gioventù russa che ha voglia di rimboccarsi le maniche, di costruire un futuro diverso, duellando contro quella corruzione che insidia il sistema. Un giorno chissà i nostri figli si incontreranno sulla piazza Rossa a Mosca, culla di una memoria storica di cui non si può far finta di niente, senza sentirsi così distanti. Toccherà a loro liberarci dall’odioso pregiudizio che ha impedito alla mia generazione di far famiglia con quella dell’Est Europa? Il nostro selfie è di buon auspicio.