La grande questione su cui, da uno-due anni a questa parte dibattono e si dividono i vari appartenenti al mondo dei libri (autori, agenti, editori, e, in maniera indiretta, tutti noi lettori) è se sia positivo o meno il fatto che, sempre più, scrittori grandi e piccoli abbiano la possibilità di autopubblicarsi riversando sul mercato i loro capolavori o i loro deliri onanistici e autocelebrativi senza l’intervento di quei filtri che, fino alla rivoluzione digitale, facevano da giudici unici e insindacabili sul valore di un’opera.
Ne hanno parlato e straparlato tutti, dai direttori delle piccole case editrici schierate in prima linea nella campagna “No Editoria A Pagamento” ai grandi guru della narrativa americana che hanno deciso di svincolarsi dai contratti con le majors e di usare la loro fama per saltare il passaggio industriale rivolgendosi in maniera diretta al pubblico.
Le ragioni delle due fazioni contendenti sono arcinote.
Gli editori si scagliano contro l’idea dell’autopubblicazione che – oltre a far completamente perdere di senso al loro mestiere – rischia di generare una mastodontica offerta di libri e libretti non più valutati e selezionati su base meritocratica, con il conseguente esplodere dell’anarchia e della confusione totale.
I sostenitori del fai-da-te ribattono che oramai da decenni sono proprio le case editrici le prime a non preoccuparsi più della qualità di quanto danno alle stampe, prese come sono dall’urgenza di far quadrare i conti e tenere in salute i fatturati, con l’inevitabile trasformazione della letteratura in puro oggetto di consumo.
La soluzione del problema è assai più complessa di quanto possa sembrare, e credo sia riduttivo pensare che la ragione stia tutta da una parte.
Certo mi ha fatto riflettere una recente dichiarazione di Aldo Busi – uno che senza dubbio di letteratura e di editoria se ne intende assai – il quale, in un’intervista al portale affaritialiani.it riportata anche da altriabusi.it, ha dichiarato:
«[…]una certa civiltà letteraria è morta, detto senza nostalgia, ora ce n’è un’altra, sono straconvinto che oggi ‘Seminario sulla gioventù’, a parte il fatto che nessuno sarebbe più in grado di scriverlo e non solo in Italia, di sicuro nessun editore lo pubblicherebbe.»
Mi sembra non ci sia bisogno di ulteriori commenti o spiegazioni. Tutt’al più può essere utile ribadire il concetto: se ci si dovesse basare sui parametri che regolano il mondo editoriale attuale, noi lettori ci saremmo persi un capolavoro assoluto come “Seminario” e, a ruota, l’intera opera di Aldo Busi.
Premettendo che, per quanto mi riguarda, mai e poi mai penserei di sborsare anche solo cinque euro per autopubblicarmi, non posso esimermi dall’evidenziare quanto segue: certe invettive antieditoria sputate dal solito scrittorucolo della domenica con chili di diari inediti chiusi nei cassetti lasciano il tempo che trovano, anzi, giocano a favore di chi pensa che il self-publishing sia il solito patetico rifugio per non-talentuosi frustrati. Ma se parole in qualche modo analoghe sono firmate da Aldo Busi assumono un peso specifico ben differente. E dovrebbero invitare alla riflessione chiunque si occupi di libri editi.