Davanti alle prime prove di scrittura, rileggendomi, mi sono messa le mani nei capelli. Una delle maggiori preoccupazioni di questi anni è stata quindi quella di trovare la mia voce. Un po’ come quando, da adolescenti, si fanno prove di personalità per dare al mondo un’immagine di sé coerente con il contenuto che si sente “abitare” dentro. Il problema è che, dentro di me, albergano molti Ka.
Cos’è il Ka? Lo si potrebbe definire una forma di autofiction. Oppure uno dei sensi che abbiamo a disposizione per esistere consapevolmente nel mondo.
Ma andiamo per gradi. La consapevolezza di sé non è faccenda da liquidare in poche battute. Si tratta in parte di affidarsi alle capacità che ci vengono date in dotazione alla nascita, in parte di affinare la conoscenza di sé e del mondo, e delle loro relazioni, attraverso un processo che impone di essere affrontato con grande sincerità. In particolar modo se si utilizza come strumento di indagine la scrittura.
Quanto è vero, nel senso di sincero, il racconto della vita messo per iscritto? La veridicità di una narrazione non coincide sempre con la verosimiglianza dei suoi contenuti, e il cammino delle idee, la loro condivisione, la consegna al rimuginare altrui, vivono sotto costante minaccia. Di un uso improprio dello stile, per esempio.
Il modo attraverso cui il pensiero viene instradato verso il lettore influenza l’appropriazione di un testo per la riflessione personale nonché il richiamo esperienziale, sensuale ed emotivo, necessario all’attivazione della percezione delle affinità e all’immedesimazione. Di uno stesso testo sono possibili talmente tante versioni , stilisticamente differenti tra di loro, che chi scrive, operando scelte definitive, esclude più o meno coscientemente le alternative latenti nello stesso tema, altrettanti aspetti della stessa verità.
Il linguaggio evocativo/simbolico (che è, sì, appannaggio di luoghi e tempi nei quali viene negata a forza l’espressione della verità, ma è anche quello della poesia, evocazione necessaria dell’indicibile) spesso è l’unico mezzo per arrivare al cuore di questioni attinenti al quotidiano, quanto e a volte più della loro mera analisi fenomenologica (per usare un refrain trito e ritrito).
[Se la forma minaccia i contenuti della prosa, per quanto mi riguarda è fuori discussione la trasmissione della verità nella poesia, il cui solo punto debole risiede nel grado di sensibilità (intesa come finezza dei sensi, di tutti i sensi) di chi legge.]
E tipico dei sensi è l’ambito di un secondo fattore che minaccia la verità delle narrazioni: la perdita di fisicità dell’oggetto “libro”.
Via via che il libro come oggetto “sensuale” arretra nella quotidianità di ognuno, la veridicità della narrazione va rarefacendosi. Ciò che si legge in formato esclusivamente elettronico fatica a restare impresso nella mente e il lettore rischia di ridursi a consumatore bulimico di narrazioni di qualità indistinta una rispetto all’altra.
Certo, lanciato dal pulpito di un blog, quest’ultimo atto d’accusa, per ora, non trova soluzione. Fortuna che, oltre a iCalamari, c’è Cartaresistente che verifica di volta in volta la veridicità delle tesi con metodologia pressoché scientifica, come nel caso delle serie di argomenti affrontati in sette post sette.
Mi riferisco in particolare alla serie dei Sette Sensi, che prenderà il via da domani, illustrata egregiamente da Davide Lorenzon con immagini che a me ricordano luminescenti graffiti metropolitani e per la quale ho accolto con piacere l’invito a fornire i miei testi.
Testi evocativo/simbolici (con prevalenza altalenante dell’una e dell’altra componente), improntati alla ricostruzione di esperienze quotidiane che, per essere tali, trovano spesso affievolita la nostra consapevolezza del loro essere necessari.
In una sfida al mezzo tramite il quale la serie viene pubblicata, i nostri Sensi vogliono resistere nell’immaginario di chi legge come resiste un sapore sul palato, l’impronta di un’immagine sulla retina, l’eco di una voce nelle orecchie, l’odore nella cavità nasale, la carezza di una mano amica sulla guancia. Come resiste, con chissà quali implicazioni, l’impressione di aver presentito un fatto poi accaduto o quella di aver creduto poter vivere essendo altro da sé (il Ka, ne leggerete presto).
A questo punto, cari lettori digitali, confidiamo nella vostra sensibilità.