E la chiamano riforma. Invece a ben guardare è la conclusione di un processo intentato da un giudice degno dell’inquisizione, da avvocati, ma dell’accusa, che sono i partiti, da sindacati chiamati senza diritto di parola nel contesto di quella che è stata definita una “istruttoria” e un imputato, già condannato ben prima della indegna rappresentazione, il lavoro. Questa brutta pièce, come i processi alle streghe, a Giordano Bruno, a Galileo, a Sacco e Vanzetti si poteva anche evitare, che tanto l’imputato era già condannato.
Un governo autoritario, anzi dispotico, senza essere autorevole, di parte grazie all’appartarsi colluso dei partiti, sordo e sprezzante della critica, separato dalla gente e dai bisogni, perché non vuole nemmeno conoscerli ben accomodato nello spazio siderale dei privilegi, ha messo in scena la liturgia edificante della negoziazione non per interesse a una qualche forma di consenso ma unicamente per rappresentare esemplarmente la sua muscolare potenza impositiva. E la vittoria di una ideologia e di un pensiero unico egemonico: i padroni sono padroni e i lavoratori devono tornare ad essere schiavi, grati e appagati dall’arbitrario e discrezionale giudizio insindacabile – e mai parola fu più appropriata – di chi tiene i cordoni della borsa, che paga, poco, prende e caccia secondo i suoi bisogni.
In un paese senza lavoro, ma moderno, una riforma del lavoro avrebbe dovuto occuparsi di creare crescita per promuovere occupazione, per favorire competenza e concorrenza, per rimettere in moto produzioni e consumi. Invece secondo un disegno ormai noto, secondo una strategia già testata in Grecia, qui più facile in assenza di opposizione, un governo commissariale e commissariato, impone un regolamento straordinario per rendere ordinari i licenziamenti isolato e estemporaneo rispetto a qualsiasi ipotesi di sviluppo, un boccone avvelenato imbottito di menzogne. Se si pensa alle dichiarazioni di interesse nei confronti dei giovani, che possono essere estromessi da un posto di lavoro entro i 35 mesi e, se assunti, licenziati nel rispetto delle leggi vigenti grazie alla cancellazione dell’articolo 18. Se per ottenere un sussidio è necessario aver lavorato 52 settimane continuativamente. Se è ormai dimostrato emblematicamente che la flessibilità indicata come motore salvifico della crescita è solo discrezionalità senza regole e precarietà.
L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori poneva un limite alla libertà di licenziamento nelle aziende private con più di quindici dipendenti, quello della «giusta causa». Non toglieva la libertà al padrone di licenziare, ma stabiliva un limite affinché essa non fosse puro arbitrio, cioè una decisione discrezionale in forza di un’asimmetria di potere. Rispecchiava quindi il principio fondamentale della democrazia, che è il riscatto dal dominio, cioè dall’essere soggetti alla decisione altrui, senz’altra ragione che la volontà di chi decide. Si dirà: ma nella sfera economica vale la libertà di disporre ciascuno della sua proprietà. E invece così non è in una democrazia costituzionale, nella quale la legge fondamentale riconosce certo il diritto di proprietà, ma riconosce anche che essa non è un fatto esclusivamente privato, anarchico, anche perché nessuna proprietà esisterebbe senza il potere dello Stato, al quale tutti contribuiscono, anche coloro che vivono di salario.
Così si sono ottenuti due risultati ambedue lesivi dello stato di diritto, dello Stato e della democrazia: abbattere i pilastri dell’edificio di conquiste e garanzie dei lavoratori, erodere le architravi della sovranità statale in materia di relazioni industriali e sociali e infliggere una ferita insanabile alla democrazia. Ieri sera un parterre padronale intriso di quel pragmatismo che altro non è che sciagurato e ripugnante cinismo ha impartito una lectio magistralis su come è giusto e buono che il mercato abbia il sopravvento su regole, diritti, carte costituzionali. E, con beffarda irrisione della storia e del mandato che un popolo ha affidato ai suoi rappresentanti, ci ha illustrato la necessaria e inevitabile disfatta dei partiti che dovrebbero avere a cuore gli interessi dei lavoratori, ma anche degli altri, soggiogati e piegati da una accondiscendente capitolazione alla controriforma.
Ci diranno che dobbiamo sacrificare un po’ di garanzie in nome della necessità e dell’opportunità. Ma in quel po’ è contenuto il significato del valore del diritto che si vuol cancellare. Perché un po’ meno di diritto significa nessun diritto; poichè un po’ meno giustizia significa meno giustizia; poiché un po’ meno libertà significa nessuna libertà; perché un po’ meno democrazia significa fine della democrazia.