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Sentenza terremoto L’Aquila: giudici vittime dell’ideologia scientista

Creato il 26 ottobre 2012 da Uccronline

Sentenza terremoto L’Aquila: giudici vittime dell’ideologia scientista 

di Aldo Vitale*
*ricercatore in filosofia e storia del diritto

 

Se in un momento di offuscamento dell’onestà intellettuale si decidesse d’accogliere la gretta vulgata tanto anticlericale quanto antistorica, così capillarmente diffusa oggigiorno, in merito all’inquisizione romana, si dovrebbe senza remore ritenere, riguardo alla recente condanna degli scienziati a sei anni di detenzione che non avrebbero saputo prevedere il gigantesco terremoto in Abruzzo, ch’essa non avrebbe potuto far meglio, o forse, peggio!

Tuttavia, se la sentenza appare prima facie a tutti grottesca e in molti ci si mobilita prendendo le difese degli scienziati, in questa sede si preferirebbe andar, come sempre, controcorrente, prendendo le difese dei giudicini (meglio definirli così, mossi a tenerezza dal loro essere così sprovveduti ed indifesi, come dei pargoli di campagna, soprattutto ora che subiscono le scomuniche e gli anatemi della “chiesa” scientifica internazionale), poiché solo così può emergere davvero la natura di una simile pronuncia di ciò che può essere definito a tutti gli effetti come un vero e proprio atto di rabdomanzia giudiziaria. Insomma, anticipando ed esplicitando le conclusioni per motivi di chiarezza, non sono gli scienziati vittime dei giudicini, ma sono i giudicini vittime degli scienziati.

Non si vuol certo fare a gara d’assurdità, considerando la sentenza in commento, ma ci si vuol proprio riferire a ciò che la realtà è in se stessa in questo strano caso, cioè paradossalmente surreale. Ebbene sì, la pronuncia dei giudicini, al netto delle vicende processuali e delle questioni giuridiche, è il risultato più lampante del pensiero contemporaneo in cui tutti, nostro malgrado, siamo immersi. I giudicini hanno condannato degli scienziati perché secondo loro, in buona sostanza, non hanno saputo far scienza, o meglio non hanno saputo far funzionare la scienza, o meglio ancora, hanno reso fallibile qualcosa che per “il comune senso del ritenere” è di per sé infallibile. I giudicini in sostanza sono le vittime, come tutti coloro che ordinariamente ritengono che la scienza sia infallibile e su questo presupposto danno per vere delle teorie e delle prassi che vere per l’appunto non sono. I poveri giudicini che hanno emesso questa sentenza, sono, in buona sostanza, vittime della cultura odierna. Sgorgano, dunque, come fonte d’acqua alcuni quesiti che possono chiarir meglio ciò che qui s’intende.

Chi oggi non sarebbe d’accordo nel ritenere che per tutte le domande della vita può rispondere la scienza? Chi oggi non pensa che scienza e religione o ragione e fede siano incompatibili per vari motivi, primo tra i quali la discrepanza incolmabile tra la certezza della prima e la opinabilità della seconda? Chi non reputa che le altre dimensioni della vita (quella umanistica, e non quella tecnica; quella giuridica, e non quella politica; quella filosofica, e non quella ideologica; quella etica, e non quella morale – nel senso della mutevolezza dei mores; quella spirituale, e non quella psicologica; quella mistica, e non quella misticistica ) siano divenute del tutto superflue, anacronistiche, spettri della diasporante soggettività degli individui contrapposta alla solida oggettività della indiscutibile scienza? Chi oggi non ritiene che la scienza se da un lato non debba fornire risposte di senso per la vita (del resto non potrebbe mai farlo, poiché l’arduo compito per natura non le compete neanche se volesse e perché del resto a ciò sono deputate, sebbene per lunghezze d’onda tra loro differenti, la filosofia e la teologia ) sia al contempo diventata per molti – non in grado tuttavia di percepirne l’autoreferenzialità – essa stessa una risposta di senso della vita? In altri termini, la scienza è stata sequestrata dallo scientismo, cioè dall’ideologia per la quale tutto provenga e addivenga dalla e alla scienza, il pensiero per cui la realtà non è più comprensibile se non attraverso la scienza, e ciò che la scienza non comprende o non esiste o è privo di importanza.

Se una volta Max Horkheimer ebbe a sostenere che «quando scomparirà la teologia, scomparirà anche ciò che si chiama senso del mondo», oggi molti vivono ricalcando questa idea ed applicandola, distorcendo all’un tempo la natura sia del referente che del riferito, alla scienza, per cui senza di essa e dove essa non c’è mancherebbe il senso. A tutto ciò si è giunti poiché si è creduto per troppo tempo che la scienza non dovesse aver limiti, pensiero tuttavia ancor oggi largamente diffuso. L’esempio lampante proviene proprio dalle questioni bioetiche e dalla avversione che i più provano verso la bioetica, cioè nei confronti della «scienza della sopravvivenza» (per usare la nota definizione che il padre del termine “bioetica”, Van Potter, utilizzò negli anni ’70). La bioetica è la scienza della sopravvivenza, poiché talvolta, sempre più di  frequente a dir la verità, la scienza rischia di mettere in pericolo la sopravvivenza stessa dell’uomo. Sarebbe troppo facile pensare alla sopravvivenza fisica e materiale messa in pericolo dall’esistenza degli ordigni atomici (la mortalità dei quali fu salutata da un celebre scienziato, Oppenheimer, con la icastica confessione per cui con le armi nucleari «la scienza aveva conosciuto il peccato», cioè perduto la propria innocenza ), ma si dovrebbe anche pensare alla sopravvivenza etica e giuridica messa in pericolo, per esempio, dalle ricombinazioni genetiche che si sperimentano nei laboratori di mezzo mondo; dalla incertezza dei rapporti familiari a causa della molteplice riformulazione degli stessi attraverso le tecniche di procreazione medicalmente assistita; dal tentativo di creare l’utero artificiale (oramai a buon punto) dando vita all’ectogenesi, cioè paradossalmente alla fine del dar la vita; dal tentativo oramai consolidato di trasformare l’interruzione di gravidanza da intervento medico e chirurgico a mera terapia attraverso i più sofisticati mezzi farmaceutici (per il tramite dei sempre più nuovi ed efficaci, sebbene non sempre efficienti, farmaci abortivi).

L’ideologia scientista ogni giorno lascia credere che tutta la vita dipenda dalla scienza (si pensi a titolo esemplificativo, forse banale, ma efficace, che le serie televisive e letterarie sui gialli e sui casi criminali e giudiziari una volta erano incentrate sulla figura dell’investigatore – Sherlock Holmes, Colombo, Poirot, Maigret – mentre oggi ruotano attorno alla frenetica, e francamente noiosa, attività di modernissimi laboratori con strumenti scientifici “all’ultimo grido” in cui la trama non si svolge tra le deduzioni logiche, umane e fallaci di chi investiga, ma si attorciglia sinuosa e seducente attorno a provette, microscopi, lucette blu, agenti e reagenti chimici ), per cui non possono biasimarsi i giudicini i quali, portando alle logiche conseguenze l’ambito culturale in cui sono e siamo immersi, abbiano ritenuto che non solo tutta la vita dipenda dalla infallibilità della scienza, ma che perfino la morte sia ad essa riconducibile. Del resto, nelle aule giudiziarie, sembra che oggi conti più l’opinione tecnico-scientifica del perito di turno piuttosto che quella giuris-prudente del giudice o degli avocati.
Tutta la responsabilità allora ricade integra ed intera sulla testa della comunità scientifica internazionale che deve cominciare a ripensare con umiltà il proprio ruolo, i propri limiti. Si deve cioè abbandonare l’idea dell’infallibilità tipica dell’ideologia scientista per recuperare una genuina dimensione epistemologica, di carattere popperiano, cioè la convinzione che la scienza non sia l’assoluto ( l’assoluto non sono nemmeno la teologia o la filosofia, che mai si sono rappresentate così pur essendo tecnicamente e rispettivamente la scienza che studia il divino e la scienza che studia la verità – per utilizzare la felice formula aristotelica – ), ma che anzi proceda secondo congetture e confutazioni.

Per recuperare il proprio senso, cioè i propri limiti, la scienza e gli scienziati devono cominciare a riconoscere anche il senso di ciò che scientifico non è, o meglio, che anche ciò che non è strettamente scientifico è latore del senso, solo così del resto si potrà riconoscere quando qualcosa è sensata o meno non solo scientificamente, come per l’appunto la sentenza in questione che prima d’essere scientificamente insensata, è giuridicamente e filosoficamente aberrante. Come si evince, la scienza non è sola e sola non può essere, poiché corre il rischio di essere annullata nella sua stessa autoreferenzialità. La sentenza che condanna gli scienziati che non hanno previsto il terremoto abruzzese è proprio il sintomo di quanto la scienza abbia pertinacemente voluto essere abbandonata alla propria solitudine, respingendo tutte le altre dimensioni dell’esistenza, non escluso il diritto, che si sono scientificizzate fino ad ottenere un simile disastroso risultato. La comunità scientifica necessita di un bagno d’umiltà filosofica ed epistemologica, riconoscendo che non tutto può avere una risposta scientifica, senza per questo significare che le risposte non scientifiche non siano risposte. La scienza, infatti, risponde al come o al quando della vita, non al cosa o al perché, ( risposte demandate rispettivamente alla filosofia ed alla teologia ). In fondo, l’ingiustizia palese e lamentata da quasi tutti in ordine alla sentenza di cui trattasi, non è per nulla una questione scientifica, ma una questione di giustizia, cioè non materializzabile e ripetibile nel chiuso d’un laboratorio, ma esperibile attraverso altre dimensioni dell’umano, come per l’appunto la ratio juris.

Peter Medawar, del resto, è stato fin troppo chiaro allorquando ha riconosciuto che «non dunque alla scienza, ma alla metafisica, alla letteratura o alla religione dobbiamo rivolgerci per cercare una risposta agli interrogativi che ci poniamo sul principio o sul fine delle cose. Si tratta di risposte che non nascono da una conferma sperimentale, e neppure la richiedono […]. Che la scienza non possa rispondere a queste domande di fondo non significa però che si debbano mettere in discussione le sue risposte a domande d’altro tipo». Se gli scienziati vogliono evitare il carcere devono cominciare a non rinchiudere più la ragione nelle lussuose, ma anguste celle della scienza stessa. La ragione non è di esclusiva pertinenza della scienza. Gli scienziati odierni commettono l’errore denunciato da Albert Camus, cioè quello per cui l’uomo, lo scienziato si potrebbe dire in questo caso, «sfuggito alla prigione di Dio ha costruito il carcere della storia e della ragione».
La scienza dovrebbe in conclusione ripensare se stessa, per esempio, cominciando dal suo rapporto con ciò che normalmente le viene indebitamente contrapposto, cioè la religione. Ma quanti, soprattutto scienziati, sono oggi disposti ad una coscienziosa attività di auto-critica? Quasi nessuno, nonostante uno dei più grandi scienziati del XX secolo, Albert Einstein, abbia scritto chiaro e tondo che «la scienza senza la religione è zoppa; la religione senza la scienza è cieca».

Alla luce di tutto ciò, i giudicini della sentenza abruzzese non sono meno colpevoli dei loro imputati, e questi, del resto, non sono più innocenti dei loro accusatori!


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