Oggi esce nei cinema Sister di Ursula Meier, che all'ultima Berlinale (ne ho scritto qui) ha vinto l'Orso d'argento e che ora arriva in Italia grazie alla Teodora. In originale si chiama L'enfant d'en haut e quello italiano è anche il titolo internazionale. Raccontare per intero la storia del film sarebbe da criminali, e se questo fosse un blog di appassionati di serie tv, giunto alla quinta riga, probabilmente avrei già utilizzato almeno tredici volte la parola spoiler e invitato chiunque abbia visto o vedrà il film a non raccontare a chi non l'abbia ancora fatto cosa succede a un certo punto della storia. Perché quello che fa di Sister non solo un racconto segnato da un colpo di scena clamoroso, ma una storia di sentimenti spaventosi e negati, è un colpo al cuore e alle certezze dello spettatore. Certo, i Dardenne, nonostante il titolo originali li chiami in causa in modo diretto, sono altra cosa: più fisici, soffocanti, in grado di costruire trame inesistenti e racconti poderosi. Ma Sister è soprattutto un film di parole e di scelte narrative, non di corpi ed emozioni impresse nell'immagine. Se ha il difetto di essere troppo esplicito, di credere in maniera fin eccessiva nel potere del racconto, proprio grazie al coraggio di imbastire una storia, di tratteggiare dei personaggi, di catturare lo spettatore, e poi a un certo punto ribaltare tutto, guadagna una forza inattesa. E' un pugno allo stomaco che nasce da una parola di troppo, che si rivela scioccante ma al tempo stesso quieto, non insistito. Niente dramma, niente compassione, solo uno sguardo delicato che filma la verità dei rapporti umani e prova a trovare un senso al vagare di un piccolo protagonista che vive da figlio di nessuno in una terra, la Svizzera delle stazioni sciistiche, delle montagne pelate, dei lavori stagionali, anch'essa sospesa e senza identità.
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Oggi esce nei cinema Sister di Ursula Meier, che all'ultima Berlinale (ne ho scritto qui) ha vinto l'Orso d'argento e che ora arriva in Italia grazie alla Teodora. In originale si chiama L'enfant d'en haut e quello italiano è anche il titolo internazionale. Raccontare per intero la storia del film sarebbe da criminali, e se questo fosse un blog di appassionati di serie tv, giunto alla quinta riga, probabilmente avrei già utilizzato almeno tredici volte la parola spoiler e invitato chiunque abbia visto o vedrà il film a non raccontare a chi non l'abbia ancora fatto cosa succede a un certo punto della storia. Perché quello che fa di Sister non solo un racconto segnato da un colpo di scena clamoroso, ma una storia di sentimenti spaventosi e negati, è un colpo al cuore e alle certezze dello spettatore. Certo, i Dardenne, nonostante il titolo originali li chiami in causa in modo diretto, sono altra cosa: più fisici, soffocanti, in grado di costruire trame inesistenti e racconti poderosi. Ma Sister è soprattutto un film di parole e di scelte narrative, non di corpi ed emozioni impresse nell'immagine. Se ha il difetto di essere troppo esplicito, di credere in maniera fin eccessiva nel potere del racconto, proprio grazie al coraggio di imbastire una storia, di tratteggiare dei personaggi, di catturare lo spettatore, e poi a un certo punto ribaltare tutto, guadagna una forza inattesa. E' un pugno allo stomaco che nasce da una parola di troppo, che si rivela scioccante ma al tempo stesso quieto, non insistito. Niente dramma, niente compassione, solo uno sguardo delicato che filma la verità dei rapporti umani e prova a trovare un senso al vagare di un piccolo protagonista che vive da figlio di nessuno in una terra, la Svizzera delle stazioni sciistiche, delle montagne pelate, dei lavori stagionali, anch'essa sospesa e senza identità.
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