Quello che non si dice può essere altrettanto interessante di ciò che si dice. Perciò credo che il libro Senza una donna. Un dialogo su potere, famiglia e diritti nel Paese più maschilista d’Europa (add editore) sia significativo da due punti di vista: sia per i temi che vengono affrontati, sia per quelli che vengono taciuti.
Le due autrici sono Alessia Mosca, parlamentare del Partito Democratico, e Flavia Perina, giornalista e navigata donna della politica (nell’MSI fin da ragazza, continua la sua carriera politica in Alleanza Nazionale; seguendo Fini in Fli perde pochi mesi fa la direzione del Secolo d’Italia). Due donne che hanno raggiunto posizioni importanti, dunque, e che si assumono l’incarico di affrontare alcuni temi che riguardano le donne in Italia. Trattandosi di Pd e Fli è ovvio che lo spirito che anima il libro è trasversale ai partiti e Perina esplicita fin da subito l’orizzonte politico: «le donne, in Parlamento come nel Paese, devono provare ad agire una buona volta come soggetto unitario, sostenendo senza dividersi proposte e riforme nell’interesse di tutte». Creare cioè quella che si dice una lobby, un gruppo di interesse (in questo caso interesse di genere) che agisce politicamente per raggiungere certi obiettivi. La prospettiva è attraente. Ma ha anche dei rischi.
Partiamo innanzitutto con alcuni dati concreti e proposte positive contenute nel libro di Mosca e Perina.
1) Lavoro. È noto che il bassissimo tasso di natalità del nostro paese è un serio problema per le casse dello Stato. Perciò sono necessarie politiche di sostegno alla natalità che, è documentato, dovrebbero partire dall’innalzamento del tasso di occupazione femminile. In altre parole, il padre che porta a casa il reddito e la moglie casalinga che cucina e pensa ai figli è un modello sociale estinto. Le donne vogliono sicurezze economiche dirette.
2) Quote. Il potere (politico, economico, finanziario, accademico… e l’elenco potrebbe continuare, ad ogni livello e in ogni ambito) viene detenuto da circoli maschili che non mostrano nessunissima spinta interna verso un riequilibrio in senso paritario. Anzi, normali criteri meritocratici vengono sistematicamente disapplicati se la candidata è donna. Perciò le quote rosa saranno anche un male, ma necessario.
3) Servizi. Le autrici notano come la genitorialità nel nostro paese venga tradizionalmente percepita come un affare privato gestita in modo familistico, di solito con l’aiuto dei nonni. Ma se invece la genitorialità ha un valore sociale e, soprattutto, se il lavoro di cura non deve pesare sulle spalle delle sole donne, allora alcuni servizi potrebbero aiutare: al di sotto dei 3 anni d’età i bambini potrebbero avere diritto all’asilo nido. È il progetto che la Merkel ha introdotto in Germania nel 2007. Oppure un servizio di baby sitting domiciliare: allevierebbe il carico famigliare e se fosse detraibile farebbe anche emergere una grande quantità di lavoro in nero. Per non parlare di riforme come i congedi di paternità obbligatori e i Pacs.
Insomma le buone idee ci sono, basterebbe la volontà politica di applicarle.
Ma, come dicevo, in questa prospettiva ci sono anche alcuni rischi. In questa sorta di femminismo sociale e d’impresa, si dà come per scontato che tutto ciò che è giusto per le donne possa essere giustificato anche in termini economici. Questa è una tesi soprattutto di Alessia Mosca: poiché le donne sono intelligenti, brillanti, capaci, istruite allora, semplicemente, è conveniente da un punto di vista economico ammetterle nei nostri Cda. Ma rimanendo sul terreno puramente economico mi pare che alleviare il gender gap costerebbe molto alle casse dello Stato. Sarebbero necessari servizi come asili nido, consultori pubblici, centri anti violenza, istituzione di istituti indipendenti che vigilino sui messaggi veicolati dai mass media, educazione sessuale nelle scuole eccetera. Sono servizi e riforme dispendiosi. L’argomento della crescita di competitività sarà anche corretto ma certo non sul breve periodo: e il governo attuale non è certo in grado di guardare più in là. Le ragioni economiche rischiano di non portare lontano. Non sarà un indizio del fatto che ci servono innanzitutto ragioni politiche?Ancora. Perina e Mosca tacciono su quelle donne che economicamente non conviene aiutare. Penso alle prostitute, alle rom, alle donne scarsamente scolarizzate (altro che Cda), alle donne dipendenti da un uomo perché vivono in contesti ad alto tasso di tradizione uniti a un’altissima disoccupazione femminile. In che modo queste donne condividono i nostri interessi e rientrano nel «soggetto unitario»? Il fascino della lobby credo risieda nel fatto che appare un modello facile ed efficace per dire la propria. Ma la lobby è per sua natura esclusiva, non inclusiva. Procedere in questa direzione senza esplicitare tale mancanza di unità porterebbe l’aggravante dell’illusione – questa sì irritantemente “rosa” – di essere tutte insieme appassionatamente, mentre ci stiamo lasciando alle spalle le più oppresse tra noi.
Un’osservazione finale. Ho già detto come Mosca sia ingenua nell’ipotizzare che un tornaconto economico sia a portata di mano. Ma il presupposto per questa affermazione è peggio che ingenuo: Mosca ipotizza che questi guadagni proverranno dall’introduzione delle cosiddette qualità femminili nelle realtà aziendali. Il pensiero della differenza diventa qui una mera riproposizione del patriarcato:
«Quella capacità di ascolto, la pazienza che questa capacità implica, la tolleranza, sono doti cui la storia ha costantemente allenato le donne, ed è forse arrivato il momento di metterle a frutto», p. 18.
Peccato che il fatto che una donna, per ottenere la posizione lavorativa che merita, debba essere “carina” è profondamente reazionario. Il fondamento che starebbe alla base di questa osservazione, secondo Mosca, è che le donne e gli uomini sarebbero caratterizzati da una complementarietà, secondo la quale l’aggressività e la capacità di iniziativa maschile troverebbero un naturale contrappeso nella tolleranza e nell’attenzione ai bisogni dell’altro tipiche delle donne. Insomma dovremmo sempre “pagare” per il nostro lavoro con qualcosa che va al di là delle competenze professionali: in questa concezione non si tratta di sesso, ma di comprensione, empatia e ascolto. Una visione della differenza di genere e dell’indipendenza individuale davvero semplificata, per non dire irritante. Bisogna prestare attenzione perché questa è una dose di cultura reazionaria somministrata senza consenso informato, nascosta esattamente là dove si crede sia (o debba essere) la cultura progressista.
Tuttavia in questi tempi di crisi l’argomento del vantaggio economico delle qualità femminili si sta diffondendo velocemente. Ho il timore che la ragione di questa diffusione a macchia d’olio sia che non si vuole ammettere che nella nostra cultura e nella nostra società l’emancipazione delle donne dovrebbe necessariamente essere sostenuta da certe dosi di spesa pubblica. Il che, ovviamente, è fuori discussione. Da qui la giustificazione del femminismo in termini puramente economici.Infine sospetto che questa sia una visione ad alta digeribilità culturale non solo perché è semplicistica (quindi appetitosa) ma anche perché incorpora una visione della differenza di genere di stampo cattolico: un Dio manager iracondo che prende l’iniziativa, mentre la vergine Maria – empaticamente, pazientemente, gentilmente – intercede. Un “tacon peso del buso” che rischia di snaturare il senso profondo delle lotte delle donne.