SERBIA: Boris Tadić, la faccia (poco) filoeuropea di un paese in affanno

Creato il 01 agosto 2011 da Eastjournal @EaSTJournal

di Filip Stefanović

Il presidente serbo Boris Tadić si gusta un caffè: ne offrirebbe una tazza anche ai kosovari, ma vige l'embargo

In Serbia è in vigore un “regime democratico”. La strada imboccata dal paese negli ultimi undici anni è univoca e unidirezionale, e a lenti ma costanti passi sta portando la Serbia verso l’agognata meta dell’ingresso nell’Unione europea, processo perfettamente simboleggiato dagli arresti dei principali criminali di guerra, da Karadžić fino ai recenti Mladić e Hadžić: magistrali colpi di teatro scaturiti dalla volontà politica del democratico, capace ed europeo presidente della repubblica Boris Tadić, esponente di punta di una nuova, dinamica classe dirigente del paese ex jugoslavo. Un politico lungimirante, Tadić,  a capo di quel Partito Democratico erede del primo premier democraticamente eletto (e ammazzato) della storia serba, Zoran Đinđić, e che ha saputo vedere e credere nel nuovo SPS di Ivica Dačić, il partito socialista del defunto Slobodan Milošević, col quale Tadić è riuscito a stringere un accordo di coalizione per la maggioranza parlamentare nel 2008, rompendo il fronte della destra nazionalista e portando, indirettamente ed in seguito, anche alla rottura degli ultranazionalisti Radicali, con la defezione di Toma Nikolić e la fondazione del suo Partito progressista serbo, SNS.

La Serbia oggi

Questa è, a grandi linee, l’impressione che anche i più “esperti” analisti e opinionisti balcanici occidentali hanno solitamente dello stato di cose odierno in Serbia, e che per colpevole superficialità o fiducioso ottimismo, a seconda dei casi, non sentono il dilagante malessere che monta tra la cittadinanza serba. Un sistema partitico marcio e corrotto, che si mantiene e sostiene per gran parte attraverso le donazioni dei grossi tycoon che tengono in mano il paese, e che piovono costantemente e indifferente sui partiti di governo e opposizione; la lottizzazione ed il parassitismo che vigono in tutte le più lucrose società di proprietà statale, dove dalle posizioni di minore responsabilità ai quadri dirigenziali più alti, remunerati con stipendi elevati anche per gli standard europei, vengono poste solo persone del partito, o “conoscenze di”, sempre gli stessi nomi che girano da un’amministrazione all’altra, di anno in anno, e che si intrecciano tra pubblico e privato; la tacita, massiccia censura dei media, che sono già o in mano a lobby di interesse, o calati in un’economia stagnante dove un pugno di persone ha il potere di chiudere i rubinetti dei flussi pubblicitari, o sotto la minaccia di esosissime querele, con la consapevolezza di dover fronteggiare un sistema giuridico altrettanto parziale e influenzabile da chi ha interesse a mettere un bavaglio alla libera critica. Intanto, una cinica e ipocrita politica estera ed interna ha fatto sì che per anni Tadić sorridesse all’Unione europea, buttando in pasto all’Aja, di tanto in tanto e con precisione svizzera, qualche dinosauro di guerra senza più valore, sempre trattato più quasi come un impiccio tecnico sulla strada dell’adesione che incarnazione delle vergognose colpe del passato serbo, mentre le scelte operate sull’irrinunciabile Kosovo, il pluriennale embargo sulle merci kosovare, solo da pochi giorni e con grosso scandalo per i serbi restituito pan per focaccia, il testardo mantenimento e sovenzionamento di strutture parallele in territorio straniero e slogan degni del defunto Milošević, hanno portato non più di una settimana fa ad un terrificante crescendo di tensioni interetniche: tornano in strada tricolori con le quattro esse e barricate di tronchi, come esattamente vent’anni fa sulle strade della Slavonia croata, mentre i confini vengono chiusi, in attesa – per alcuni nella speranza – che salti nuovamente il primo barile della polveriera balcanica.

Lo gridano anche i tronchi: "Kosovo serbo!"

B92, ex-voce indipendente

Il 29 luglio, in una lunghissima intervista apparsa col fantasioso titolo “Criminali del Kosovo hanno incendiato Jarinje” sui canali di B92, ex voce indipendente e simbolo della lotta per la libertà d’espressione durante il regime di Milošević, oggi più strumento ufficioso del Partito democratico di Tadić, il presidente ha messo in chiaro le sue posizioni, che a fatica riusciamo a differenziare rispetto a ciò che ascoltavamo negli anni ’90 e durante la crisi finale del 1997-99. Come in un film già visto, Tadić assolve in toto e senza prova apparente la popolazione serba da ogni colpa nel crescere di scontri che sono seguiti nei giorni precedenti: chiede che venga indagato a fondo su chi abbia attaccato il checkpoint di confine di Jarinje, un’azione, a sua detta, contraria agli interessi serbi. Aggiunge di essere certo che gli assalitori non provengono dalla Serbia centrale, ma è gente del Kosovo, e sottolinea come ci siano forti connivenze tra criminalità organizzata e Pristina, dicendo quindi in maniera non troppo implicita che il mandante è il governo centrale kosovaro, o per dirla in termini politicamente corretti, “l’amministrazione provvisoria di Pristina”.

Tadić: è tutta colpa di Pristina

Messi in riga gli albanesi del Kosovo, il presidente passa a bacchettare gli americani e il loro ambasciatore a Pristina, Christopher Dell, colpevole a suo dire di non essere imparziale, di appoggiare e fomentare la politica agressiva e secessionista albanese a detrimento degli interessi pacifici e costruttivi serbi. Pur sottolineando magnanimamente il dispiacere per la sanguinosa morte di un poliziotto albanese, Tadić si è affrettato ad aggiungere che dall’altra parte ci sono stati numerosi feriti civili, cittadini inermi, e che per quanto la Serbia abbia costantemente cercato con le migliori intenzioni una soluzione pacifica alla questione kosovara, è proprio Pristina che cerca il conflitto armato: Belgrado non ha responsabilità. La domanda da un milione di dollari arriva verso la fine, la giornalista chiede al presidente: “Se l’indipendenza del Kosovo venisse veramente posta come condizione irrinunciabile per l’ingresso in UE, quale sarà la risposta di Belgrado?”. Tadić: “La risposta sarà no! È molto semplice. Io sono un presidente della Serbia che porta avanti una politica prevedibile e avverto i miei partner europei su ciò che la Serbia farà e su ciò che potrà fare“, concludendo infine che “il dialogo tra Belgrado e Pristina non ha alternative e non esistono soluzioni migliori. Esiste un’alternativa, cioè la violenza e la guerra. In questo momento Pristina ha fatto ricorso alla violenza, Belgrado no.” Intanto, nelle stesse ore, il portavoce della delegazione serba ai dialoghi con Pristina, Borko Stefanović, presenziava sulla linea del fuoco coi suoi connazionali, scorazzando felice da una barricata di tronchi all’altra (barricate e barricati serbi calati evidentemente tutti assieme sul posto, come ci è stato spiegato da Tadić, da criminali albanesi in concerto con Pristina). Alle pressanti richieste della KFOR di rimuovere immediatamente i blocchi stradali, il fiero portavoce della pacifica politica belgradese rispondeva: “Nessuno al mondo, né Dio né il presidente possono chiedere a questi uomini di spostarsi dalle loro posizioni!”. La sua controparte nei dialoghi tra Serbia e Kosovo, Edita Tahiri, ha così sottolineato che in seguito al ruolo inopportuno rivestito da Stefanović in questi giorni, sorge il problema se egli possa ancora rappresentare la Serbia al tavolo delle trattative di Bruxelles. In effetti, sui tronchi sembra più a suo agio.

Borko Stefanović-Delacroix, "La Libertà che guida il popolo", installazione visiva, 2011.

Le prospettive

Al momento, lo stallo serbo appare molto serio. La due coalizioni partitiche che si appoggiano al governo, da un lato riconducibili ai Democratici di Tadić, dall’altro ai Socialisti di Dačić, al di là delle questioni prettamente politiche di cui abbiamo accennato, tutt’altro che europeiste, hanno dimostrato una totale incapacità nell’occuparsi positivamente della cosa pubblica, traghettando malamente uno dei paesi più poveri d’Europa attraverso la crisi economica, alimentando l’idea, supportata da alcuni gravi scandali di corruzione, di casta parassitaria dedita solo all’accomulazione e spartizione tra i propri eletti di soldi e potere. Essi pagano quindi ora un forte calo di consensi, e non risultano favoriti alle prossime elezioni parlamentari del 2012. Chi corre verso la vittoria è il Partito progressista di Toma Nikolić, costola distaccatasi dal Partito radicale, protagonista di tutte le vicende politiche e belliche degli anni ’90. Per quanto esso possa oggi rappresentare l’ala moderata e costituzionalista della destra serba, condivide pur sempre nel proprio DNA le origini storiche dei Radicali, e nonostante il restyling rimane complice diretto di molte delle vicende del regime di Milošević: un loro eventuale avvento al potere non cambierebbe le posizioni del governo serbo su questioni come quella del Kosovo, impedendo una rapida e proficua risoluzione del problema. L’unica altra alternativa possibile è il Partito liberaldemocratico di Čedomir Jovanović, anch’esso un prolungamento nato nel 2005 dal Partito democratico, più vicino alle posizioni originarie dell’ex premier Zoran Đinđić e più sinceramente europeista, tanto da rappresentare l’unica forza partitica intenzionata a riconoscere l’indipendenza del Kosovo. Esso però rappresenta solo il 5% circa dell’elettorato, ed è probabile che benché ora sia all’opposizione, alle prossime elezioni saprà stringere un’alleanza coi Democratici per garantirne la maggioranza e arrivare a sua volta al governo, venendone di fatto neutralizzato.

Se quindi ad oggi le uniche speranze per mettere in moto la Serbia stanno in spinte esterne da parte dell’Europa, ecco che sarebbe ancora più opportuno che l’occidente avesse una visione quanto più obiettiva e disincantata della politica serba, lasciando da parte certi affreschi ormai banali e quasi stucchevoli di una democrazia in costruzione, e chiedendosi finalmente perché, a dodici anni dalla rivoluzione che ha detronizzato Milošević, più di quanti sia durato il suo stesso regime, la “transizione” sia un processo ormai eternalizzato, quasi mitico, piuttosto che felicemente riuscito e storicamente concluso. Fino ad allora, per favore, ci si risparmi l’ottimismo.

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