di Damjan Pavlica
traduzione dal serbo di Filip Stefanović
Articolo originale tratto da e-novine
La Chiesa ortodossa serba è la più antica ed influente organizzazione politica serba. Nel corso della storia si è presentata con nomi diversi (Arciepiscopato di Žiče, Patriarcato di Peć, Metropolato di Karlovci), e oggi è nota al largo pubblico col difamante acronimo SPC (Srpska Pravoslavna Crkva). Il nome attuale, la Chiesa ortodossa serba lo porta dal 1920, quando è riuscita a coronare il suo sogno grandeserbo di condurre sotto al proprio giogo tutti gli ortodossi dei territori jugoslavi, compresi coloro che non si ritenevano serbi, quali i macedoni.
Fondatore della Chiesa in Serbia viene considerato, piuttosto erroneamente, San Sava. In realtà, almeno cinque secoli prima di lui ebbe luogo la prima cristianizzazione di massa dei serbi, ai tempi dello zar Eraclio, agli inizi del VII secolo. Finché poi, alla fine del XII secolo, Sava ed il di lui padre Nemanja non diedero il via a crudeli persecuzione religiose nella Raška, che comprendevano la morte sul rogo, il marchio dei volti, espulsioni in massa dalle terre, confisca dei beni immobili e altre misure temibili. Chi non voleva abbandonare la propria fede ed accettare la nuova organizzazione ecclesiale, Nemanja ed il di lui figlio Sava “con gran disonore li cacciavano dalle intere loro terre”. Pertanto, Sava Nemanjić non ha fondato la Chiesa serba, ma ha semplicemente sradicato le forme slave autoctone di cristianesimo, e riformato la chiesa serba nell’organizzazione politica di “vera fede” sotto il controllo di Carigrad (l’antico nome slavo per Costantinopoli, ndt). Da allora la Chiesa serba è stata messa a servizio del culto della dinastia regnante dei Nemanjić, proclamando santi la quasi totalità dei suoi signori, compreso il re Milutin, che aveva una cattiva reputazione tra il popolo per la sua vita amorale e le molestie alla minorenne Simonida, ma che spendeva molto per la costruzione di chiese e monasteri. Nel XIV secolo, i grandi rappresentanti della Chiesa hanno appoggiato con riconoscenza le pretese imperiali di re Dušan, aspettandosi di ricevere i profitti delle nuove parocchie greche, ragion per la quale sono incorsi in un anatema da parte della chiesa greca, della quale erano emanazione.
Migrazione dei serbi, Paja Jovanović (1896), Museo Nazionale, Belgrado
La Chiesa serba è responsabile con la sua opera politica di una delle maggiori migrazioni della storia serba, la grande migrazione dei serbi del Kosovo in Austria. Meglio detto, alla fine del XVII secolo, il patriarca di Peć Arsenije III Crnojević si schierò nella guerra austro-turca a fianco dell’Austria. In seguito alla sconfitta dell’Austria, lui fuggì all’estero. Sebbene la Turchia avesse dichiarato un’amnistia generale, i dirigenti della chiesa non vollero rimanere senza il proprio gregge, e chiamarono il popolo serbo a lasciare le proprie terre secolari in Kosovo, costituendo in seguito una struttura ecclesiastica parallela in territorio austriaco, il Metropolato di Karlovci. Qualche decennio più tardi, il patriarca di Peć Arsenije IV Jovanović ripete la stessa decisione politica con il medesimo esito. In seguito alla migrazione sotto la guida della chiesa, la popolazione serba in Kosovo diviene minoritaria. Ma, grazie ai privilegi regali, i metropoliti di Karlovci rimangono fino al XIX secolo i più autorevoli rappresentanti del popolo serbo presso la monarchia asburgica. Paradossalmente, oggi la Chiesa si presenta come prima protettrice dei serbi in Kosovo.
In seguito alla nascita della Serbia moderna, il metropolato di Belgrado si unisce attivamente alla lotta per “l’unione dei serbi”, cogliendo in ciò l’occasione per un allargamento della propria competenza territoriale. Con la creazione della Jugoslavia, tutte le chiese ortodosse vengono riunite nella neonata Chiesa ortodossa serba. Durante il Regno di Jugoslavia, la SPC appoggia il regime e la dittatura di re Alessando. Durante la Seconda guerra mondiale, la Chiesa collabora coi cetnici di Draža Mihailović. Il periodo della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia rappresenta un raro momento in cui la Chiesa rimane esclusivamente un’istituzione di fede, senza autorità politica, perché il nuovo potere le rimane lontano. Poco dopo la morte di Tito, la SPC inizia una campagna incendiaria sul genocidio dei serbi, strumentalizzando i resti mortuari delle vittime, non richiamando alla pacificazione e al perdono, bensì alle armi. Alla fine degli anni ’80, la Chiesa ortodossa serba offre un importante sostegno alla salita al potere di Milošević, supportando le attività da lui dirette per l’abolizione delle autonomie della Vojvodina e del Kosovo.
Durante le guerre in ex-Jugoslavia, la Chiesa ortodossa serba ha avuto un ruolo negativo di spicco. I suoi rappresentanti hanno appoggiato le formazioni serbe militari e paramilitari, e benedetto Radovan Karadžić, Ratko Mladić, Arkan e gli altri. La SPC ha rigettato praticamente tutti i piani di pace proposti, compresi il Piano Vance, il Piano Vance-Owen, il Piano del Gruppo di contatto e gli accordi di pace di Dayton. I suoi più alti rappresentanti hanno allora apertamente caldeggiato il proseguio del conflitto e la creazione di una Grande Serbia.La SPC oggi sputa su tutto ciò che è altro e diverso, ossia tutto ciò che non è la Chiesa ortodossa serba. Il suo odio è particolarmente indirizzato verso le minoranze: religiose, etniche e sessuali. I rappresentanti della SPC, come principali portatori di sentimenti antieuropeisti, nei loro interventi diffamano regolarmente la società civile, la cultura occidentale, la democrazia, il liberalismo, i diritti umani e simili tendenze libertarie. L’unica visione della chiesa serba è l’idealizzazione del medioevo bizantino, quando scorrevano latte e miele.
E nonostante le numerose critiche, la SPC continua con la sua linea di estrema destra. Nel Giorno della vittoria sul fascismo, il 9 maggio 2009, la SPC ha tenuto una veglia nella cattedrale di Belgrado (Saborna crkva) per i collaboratori del fascismo, Milan Nedić e Dimitrije Ljotić. Nell’estate del 2011, la SPC ha sponsorizzato il libro del criminale di guerra Milan Lukić, condannato all’ergastolo per aver dato alle fiamme più di cento donne e bambini bosgnacchi a Višegrad.