Ritratto di Sergej Esenin eseguito da Jurij Annenkov (1889-1974)
Un uomo nero, nero, nero, un uomo nero si siede sul mio letto, un uomo nero che non mi fa dormire…Appare un uomo nero in Puškin, l’uomo nero che commissiona a Mozart il Requiem e poi scompare; una figura inquietante che già Ripellino suggeriva di accostare ai macabri sosia di Blok, inconsolabile fidanzato di Lillà, e a Esenin, teppista col cervello spogliato dall’alcool, come un boschetto spogliato a settembre. L’uomo nero è sempre un ospite sgradito.
Negli ultimi due anni della sua vita Sergej Esenin vive negli eccessi, spesso ubriaco; ma in questo periodo di disperazione personale egli creò alcune delle sue poesie più belle e note, tra le quali troviamo appunto il poema L’uomo nero, considerato una peculiare confessione del poeta, l’apice delle vicissitudini di un uomo che conosce la solitudine e il vuoto, il punto estremo della tragica parabola di Esenin. In questo poema autocommiserazione e angoscia balenano per l’ultima volta in un ubriaco delirio in cui si muove funereo e funesto il sosia-nemico del poeta.
L’uomo nero tradotto da Paolo Statuti
L’uomo nero
Amico mio, amico mio,
Sono molto molto malato.
Io non so perché questo tormento.
Forse è il vento che fischia
Sul campo vuoto e desolato,
O a settembre spoglia un boschetto,
Come l’alcool spoglia il cervello?
La mia testa agita le orecchie,
Come un uccello le ali.
Sul collo della notte
Non può più apparire.
Un uomo nero,
Nero, nero,
Un uomo nero
Si siede sul mio letto,
Un uomo nero
Che non mi fa dormire.
L’uomo nero
Scorre col dito un libro ripugnante
E, con voce nasale su di me,
Come un monaco con un morto,
Mi legge la vita
Di un furfante cialtrone,
E il cuore colma di paura e sconforto.
L’uomo nero
Nero, nero!
«Ascolta, ascolta –
Mi mormora ora –
Il libro è pieno di stupendi
Pensieri e piani.
Quest’uomo viveva in un paese
Di spaventosi
Banditi e ciarlatani.
A dicembre in quel paese
La neve è dannatamente pura,
E le bufere muovono
Allegri filatoi.
Quell’uomo era un avventuriero,
Ma della migliore specie
Che incontrare tu puoi.
Era brillante,
E per giunta poeta,
Con una forza non grande,
Ma pronta e animata,
E una certa donna
Di quarant’anni e più
Lui chiamava ragazzaccia
E mia cara amata.
La felicità – egli diceva –
E’ la prontezza della mente e delle mani.
Tutte le anime incapaci
Sono nate come già infelici.
Non fa niente
Che tante pene
Derivino da gesti
Spezzati e mendaci.
Nelle tempeste, nelle bufere,
Nel freddo quotidiano,
Nelle perdite gravi
E quando sei triste,
Sembrare semplice e sorridente –
E’ l’arte più grande che esiste».
«Uomo nero!
Non osare questo!
Non sei uno che esplora
Le profondità altrui.
Non m’interessa la vita
Di un poeta scandaloso.
Ti prego, leggi ad altri
Questa storia».
L’uomo nero
Mi guarda insistente,
E i suoi occhi si velano
Di vomito bluastro –
Quasi volesse dirmi:
Sei un ladro impudente
Che in modo arrogante
Ha derubato qualcuno.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Amico mio, amico mio,
Sono molto molto malato.
Io non so perché questo tormento.
Forse è il vento che fischia
Sul campo vuoto e desolato,
O che a settembre spoglia un boschetto,
Come l’alcool spoglia il cervello?
Gelida notte.
All’incrocio silenzio e pace.
Sto solo alla finestra,
Ospiti o amici io non aspetto.
La pianura è coperta
Di calce friabile e soffice,
E gli alberi, come cavalieri,
Son riuniti nel nostro boschetto.
Chissà dove un uccello notturno
Piange funesto.
I cavalieri di legno
Spargono il battito degli zoccoli.
Ed ecco la figura nera
Si siede sulla mia poltrona,
Togliendosi il cilindro
E aggiustandosi la finanziera.
«Ascolta, ascolta! –
Gracchia, guardandomi in volto,
E chinandosi
Sempre più vicino –
Non ho mai visto
Un farabutto come te
Soffrire d’insonnia
In modo così inutile e stolto.
Ah, forse sono in errore!
C’è la luna stanotte.
Cos’altro serve
Al tuo piccolo mondo di sonno?
Forse «lei» verrà di nascosto
Con le sue grasse cosce,
E tu le leggerai
I tuoi languidi putridi versi?
Oh, io amo i poeti!
Gente spassosa.
In loro io trovo sempre
Una storia nota al cuore –
Come un mostro capelluto,
A una studentessa pustolosa
Parla di mondi,
Grondando sessuale languore.
Non so, non ricordo,
In quale contrada,
Forse a Kaluga,
O forse a Rjazan’,
Viveva un bambino
Di semplice famiglia contadina,
Con gli occhi azzurri
E la testa dorata…
E diventò adulto,
E per giunta poeta,
Con una forza non grande,
Ma pronta e animata,
E una certa donna
Di quarant’anni e più
Chiamava ragazzaccia
E mia cara amata».
«Uomo nero!
Ospite sgradito!
La tua fama
Da tempo s’è sparsa».
Sono arrabbiato, infuriato,
E vola il mio bastone
Dritto dritto
Sul suo naso…
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
…La luna è morta,
L’alba si fa azzurra alla finestra.
Ah, notte!
O notte, cos’hai distrutto?
Sto col cilindro in testa,
Con me non c’è nessuno.
Sono solo…
E lo specchio è rotto…
14 novembre 1925
(C) by Paolo Statuti