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Sergio ChiapporiPoesie

Da Ennioabate

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FREE-CYCLING DREAM

Quasi Venezia quasi
libertà vò cercando sulle note
di un impasto sinfonico di fondo
archi ben delineati fuori scena, piatti, un po’ di corni,
pedalando giù per il corso – che non è Giovecca –
col canale che scorre al suo divario
e si dilegua, valeva sì la pena aver vissuto
secoli di laguna e pedalare ancora con vigore
col viso di un autunno d’altri tempi, grigio il cielo,
calmo senza storia, così quasi da sempre. E ancora
odo la sinfonietta e la cadenza alterna
della ruota che scivola leggera
sfilando verso il mare nel chiaro degli stagni
che segnano l’orizzonte fuori porta e la campagna
che attende piatta, oscura, solitaria insomma
tale da poter vivere ogni giorno in cui brillava
(si fa per dire) la vita quieta di un artista, quella
che dà soddisfazione a ripensarci, a riviverci qui
mentre avanzo e pedalo a fianco del guard-rail
che alterna le balaustre cittadine in marmo bianco
lucide come statue un po’ bagnate, più consunte
come noi dagli anni. Vita mia che è stata e che mi mise
in contatto a sodali, compagni e testimoni
cui scrivevo seriose lettere di stimolo e conforto
invitando a produrre di più, a più levar sottili
qualità come forse ne poteva scrivere quel Nietzsche
pedalando a Torino assai commosso
per l’incontro coi cavalli di piazza, un nodo in gola
di felicità inespressa e denso
rilievo del suo vivere,
del mio.

ALLA FOCE DEL LISCIA
Ho camminato calcando erbe taglienti,
punto dai cardi e da schegge di conchiglia.
Mi arresta questo rivo. Qui la vita
si regola col sole, con le stelle. Là nessuno
conosce tempi e segni. Vagabonde
divinità frequentano i canneti,
appaiono e scompaiono. L’infosso
ci ripara dai venti e non c’è guado.
Qui è finito il mio viaggio. Mi distendo
accanto al Liscia che torna nel suo mare.

Tu che sei stato nuvola nel cielo,
pioggia poi nei valloni e nelle forre,
che hai vissuto il destino d’esser fiume
sonoro fra le ghiaie, qui divieni
laguna per gli aironi e regredisci
a stagno fra le canne. Poi sospinto
da pulsioni tortuose t’intrometti,
a forza in questo solco e trovi
l’onda che batte e ti dissolve ma egualmente
qui giungi amato. E la salsedine t’accoglie.

GLICINE, MERLO.

Da tempo sormontando l’alto muro
dell’ospedale un getto di corolle
sciorinava l’azzurro, s’appellava ed era
glicine conscia del mio sguardo. Nere
penne distende un merlo che risvola
verso aiuole solinghe e ci saluta,
umani noi troppo umani. Due letizie
tracciano l’arco che ci accoglie, segno
del nostro indenne transito e la vita
d’ogni organismo qui vedi e qui abbandoni,
foglia staccata, impronunciate sillabe, splendore.

IL CORVO

Sfarfallìo di penne sull’armadio
In camera da letto. Quante volte
di notte sillabando alla mia immagine
allo specchio insistente mi chiedevo
se il tempo che trascorre, il martellare
dei clacson, dei motori, quel brusìo
degli umani fra strepiti e sirene
di ambulanze alla fine per forza
avrebbero prevalso costringendo
noi sulle soglie di tanta nullità.
“Giammai!” gracchiava allora il corvo.

Dunque addio, mio io, nuvola passeggera,
lascia l’asilo del mio corpo, spenta voce,
sciogliti al far dell’alba, nero abbaglio.

RISVEGLIO A KALARIS

Fresco questo vento di grecale,
ferma la luce azzurra che discende
qui nel cavedio fra vicoli e muraglie.
Vorrei aprirmi una strada alle tue rive,
città-castello lontana da ogni rotta,
Káralis, tu, con navi non più nere.
Scale di marmo bianche sotto il sole
salgo e discendo incurante controvento.
Grigio su grigio lo stagno ci trattiene
dal traguardo di Malaga. I gabbiani
attendono rinforzi da scirocco. Noi,
pellegrini nel vento, nuovi ardori.

*



EX SALMO 94
“FEU, Dieu d’Abraham, Dieu d’Isaac, Dieu de Jacob,
non des Philosophes … Certitude, Certitude,
Sentiment, Joie, Paix…”
Blaise Pascal

Là, sulla dritta, ora ti avvisto,
roccia della mia salvezza!
Alla barra, allora, timoniere!
Accosta lì sicuro e rendi grazie
a chi nel mare ha creato abissi e mostri,
a chi ha plasmato i pinnacoli dei monti,
al dio di Abramo, d’Isacco e di Giacobbe,
che sempre regna sul cielo e sulle stelle,
che ci dà le certezze, gioia e pace!
Leva in alto su in cima il Gran Pavese,
soffia in quel corno che salva i marinai
quando viaggiano di notte e nella nebbia!
Noi, suo popolo e suo gregge,
solo in Lui confidiamo, a Lui ci inginocchiamo
perché ci ha nutriti di manna e dissetati
con la pioggia dal cielo e con le fonti
di Massa e di Meriba, nel deserto,
quando l’acqua era sgorgata dalle rocce
al primo tocco del legno che di sangue
già aveva tinto le acque del gran Nilo.
Fu la potenza immane del Signore confermata.
L’acqua sgorgò ma osammo dubitare,
Altissimo, di Te, delle Tue Vie, dei Padri.
Nei nostri cuori induriti dai travagli
svanì la memoria della Tua predilezione
che ci aveva guidati nel ritorno dall’Egitto
quando ci apristi un varco nel Mar Rosso.
Mai più meriteremo tanto amore!
Fu allora che giurasti il Tuo disdegno.
Fonte di pianto sempre sarà per noi
la muraglia sbrecciata del Tuo tempio.


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