Maggioranza e minoranza, questione di punti di vista. «Ѐ completamente impensabile arrivare alla conclusione che la Fiat non sia interessata agli 80mila dipendenti che ha in Italia, paese dove è stata fondata 112 anni fa e che ci sta a cuore». Queste parole di Sergio Marchionne tendono a coprire con un velo le esplosive dichiarazioni che l’amministratore delegato Fiat aveva lanciato nelle scorse ore. Marchionne ha fatto chiaramente intendere – puntigliose smentite a parte – che la Fiat non è più roba nostra, ma roba di tutti. Brasile, Cina, India. Ha fatto intendere che, in un periodo in cui gli italiani avrebbero bisogno della loro industria principale, potrebbero trovarsene privi. In parole povere, la Fiat ha bisogno degli italiani, ma non dell’Italia.
«Abbiamo avuto la maggior parte dei lavoratori che ha appoggiato un’alternativa», così l’ad Fiat durante l’incriminato discorso di Washington. «Il treno è passato ed è inutile cercare di insistere che bisogna rinegoziare. Quella decisione è stata presa e non possiamo continuare a votare finché non vince la Fiom. Questa è la tirannia della minoranza verso la maggioranza. La Fiat non può essere la vittima di questa minoranza. Non si può investire così, parliamo di miliardi di euro di investimenti, non di aprire un supermercato». Giri di parole per evitare di scivolare in un “addio, i tempi son cambiati”, senza discostarsi troppo dal medesimo significato.

Un’altra Italia. Una storia d’amore, quella tra l’Avvocato e il Bel Paese, lunghissima e complessa. Un’identità in fusione reciproca, in un viaggio che ha solcato valli e monti impervi. Gli anni della Ricostruzione, il Boom e le lunghe code di 500 e 126 in autostrada. Il marchio che aveva il sapore d’orgoglio nazionale. Il patrimonio da difendere, anche in quegli anni settanta così straordinari e turbolenti, in cui tutto fu messo in discussione. Presidenti, dirigenti, capireparto, operai. L’azienda però, l’identità, quella mai.
Vennero gli anni ottanta e il secondo picco di welfare, poi i Novanta con Tangentopoli , con il corto circuito tra politica e imprenditoria, durante i quali i fili – non tutti – uscirono dal bulbo. Fu proprio in quel 1993 che Craxi, in deposizione al Palazzo di Giustizia di Milano durante il processo Enimont, dichiarava davanti al pubblico ministero Di Pietro quanto fosse ingerente l’apparato Fiat nella stabilità politica italiana. Un’informazione intuita da tempo, ma mai sviscerata da fonti così attendibili. In virtù di tutto questo, è ovvio come a volte possa accendersi il paragone tra l’ultima dirigenza Agnelli e i discendenti; tra l’era dell’orologio sul polsino e quella del pullover alla Marchionne, uomo dalla maschera umana che cela ad arte un cuore robotico, al passo coi suoi tempi.


E la minoranza non è la Fiom, caro Marchionne, ma la Fiat. Così come l’hai voluta tu.
Questione di punti di vista, appunto.
(Pubblicato sul “Fondo Magazine” del 6 dicembre 2011)




