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Serie Tv: recensione "Southcliffe"

Creato il 03 ottobre 2014 da Giuseppe Armellini
Veramente strana la vita e le sue coincidenze, specie in quest'ultimo periodo.
Proprio nel mese in cui l'interessantissimo canale Crime di Sky propone la rubrica "Un giorno di ordinaria follia", ossia i racconti dei serial killer -come li chiamo io- sincronici, quelli che hanno ucciso in un solo giorno più persone (uno su tutti per capirsi, la strage di Utoya), assassini in realtà molto diversi dai serial killer tout court o diacronici, quelli che commettono omicidi a intervalli più o meno regolari o comunque in più tempi, e proprio quando la sera prima vedo la puntata di un pazzo inglese che ha fatto fuori per strada non so quante persone, ecco che un amico mi consiglia Southcliffe.
Miniserie, talmente mini che Nymphomaniac di Trier anche in versione tagliata dura un'ora di più.
E proprio di un giorno di ordinaria follia, e proprio di un inglese, parla questa nerissima serie che, a differenza di quanto potete pensare, tutto fa tranne che strumentalizzare, servirsi del dettaglio macabro o mostrare morbosamente come un uomo in pochissime ore possa aver ucciso 15 persone e ferite mortalmente delle altre.
No, nessuno splatter, nessun proiettile che sparge sangue, nessuna concessione alla spettacolarizzazione dell'omicidio.
Southcliffe è la serie del prima e del dopo, il durante è sempre solo accennato, è proprio questa una delle sue peculiarità.
Sarà per questo che inquieta di più.
Penso alle fotograficamente stupende scene sulle rotaie, tese come poche, alla macchina con la famiglia che vede arrivare Morton, alla ragazza che fa jogging, all'omicidio della madre.
Ci si ferma sempre un attimo prima, a mio parere regola aurea della suspense, oppure si preferisce lasciare tutto fuori campo.
Perchè in realtà questa tutto è tranne che una serie "facile", una di quelle costruite ad hoc per aver successo.
Southcliffe rispetto alle immagini, dà molta più importanza a tematiche e riflessioni.
Altra produzione inglese, altro cast in stato di grazia con un sorprendente Sean Harris (l'indemoniato del da poco recensito Liberaci dal male) e un ancor più bravo Rory Kinnear (l'indimenticabile Ministro del primo episodio di Black Mirror) a svettare su tutti gli altri, comunque bravissimi. Bravissimi è dir poco quando tra questi altri, ad esempio, c'è il favoloso ormai ex caratterista Eddie Marsan che dopo Still Life e Tirannosauro con questa terza interpretazione entra prepotentemente nel mio Olimpo personale.
Ma il punto di forza della serie, almeno nei primi due episodi dei quattro totali è la costruzione temporale, questi continui salti avanti e indietro nel tempo concentrati tutti però in sole 24 ore, quelle a cavallo della strage. Può ricordare un pò, anche per tematiche, l'Elephant vansantiano, e lo fa ad esempio nel virtuoso "trucco" di mostrare una stessa scena da due angolature diverse in due tempi molto lontani tra di loro (strepitoso il primo uso di questa tecnica nella cameretta della madre del killer).
C'è un tempo che pare fermo, si sente nell'aria che sta per accadere qualcosa, il personaggio di Stephen è sempre più morto nello sguardo e nella voce, sta per esplodere.
E la prima avvisaglia della sua pazzia è nella bellissima scena a metà del primo episodio, quella guerra che da gioco rischia di diventare altro.
Il cielo è sempre plumbeo, siamo nella campagne inglesi, campagne di nebbia e fango, campagne restituite in maniera pazzesca dalla regia e dalla fotografia, specie negli innumerevoli e perfetti camera car.
La regia già, magnifica, con un uso della carrellata in avanti lentissima (che io amo da morire, specie su inquadrature ferme) che a volte fa gridare al miracolo, una costruzione delle scene studiata nei minimi dettagli, vedi ad esempio la telefonata tra il campo lunghissimo del cantiere navale e quello strettissimo della moglie nascosta dietro il tavolo (Ti prego! ti prego!), quella specie di Karma Police in cui Stephen deve correre nel fango e nella pioggia davanti la macchina (a livello di plot scena chiave del film) o la notte in cui tra servizi live del giornalista, elicotteri e spari si sancisce, forse, la fine di Norton nella palude.
A proposito di giornalista e servizi, la tv è presente praticamente in ogni scena, e non solo per i notiziari ma anche con programmi molto meno importanti. Sembra quasi essere il film rouge della serie questa massiccia presenza dei media nella vita delle persone.
In realtà non fil rouge ma tematica principale è senz'altro quella dell'elaborazione del lutto.
Ed è qui che, forse, Southcliffe si perde un pò.
Ma è importante spiegare perchè.
Se le prime due puntate sono un continuo avanti e indietro nel tempo a cavallo tra il prima, l'appena prima, e il dopo la strage, la terza e la quarta abbandonano quasi del tutto questa costruzione per soffermarsi una, la terza, sui giorni successivi alla strage, e la quarta sull'anniversario di un anno dopo.
Tutto quindi è fermo, e si pone l'attenzione su come le varie persone coinvolte nel massacro affrontino le proprie perdite.
E lo si fa in maniera perfetta, umana, mai troppo esagerata.
Uomini che non hanno più niente nella vita (anche se apparentemente sembravano fregarsene) che decidono di farla finita, mamme che tentano il tutto per tutto per cercare di far vivere ancora la propria figlia portando avanti le loro battaglie, gente che vuole dimenticare, ragazzi che si sentono troppo in colpa.
Tutto è raccontato perfettamente.
Ma la serie sembra fermarsi, sembra essere un'altra.
E la vicenda della madre che cerca l'immigrata romena viene talmente esasperata da diventare quasi un'intera puntata, negli episodi conclusivi poi, quando, semmai, poteva essere un'ottima storia di contorno centrale.
Quello che ci aveva affascinato di Southcliffe non c'è più, è diventato altro, è diventata una tremenda e fredda analisi sul dolore e sulla perdita con, parallelamente, una feroce critica a certi piccoli ambienti che sembrano allevare serpi in seno senza accorgersene e poi una volta che avviene la tragedia provano ad individuare un capro espiatorio e tornare alla loro normalità.
O finger di tornare alla normalità.
In questo senso è fantastica, veramente indovinata, la scelta di fare andare come inviato speciale per il tg proprio un ex bambino di quel posto, un bambino che passò un'infanzia terribile, deriso, umiliato e maltrattato da tutti perchè figlio di quello che si riteneva un assassino (anche se assassino colposo, un errore in fabbrica).
Questo giornalista odia Southcliffe, i ricordi riaffiorano, è quasi più vicino al killer (altro membro della comunità deriso dagli altri, tra l'altro suo amichetto d'infanzia) che alle vittime.
E si crea un corto circuito magnifico.
In questo paese che ormai non sarà più lo stesso, enfio di vite distrutte e di verità forse tenute nascoste, si arriva così al giorno della commemorazione, che non è solo la commemorazione di quella tragedia ma per un assurdo caso del destino -o forse no- anche il giorno di commemorazione di tutti i morti, il 2 Novembre.
Manca solo un minuto alla fine della serie, non può accadere altro.
E invece no, e invece David, il giornalista, quel figlio ripudiato dal proprio paese natale, quel figlio che è tornato per sputare a tutti in faccia quanto quella tragedia se la siano meritata, quell'uomo è lì, fermo.
E vede persone che si abbracciano, lacrime che scendono, un silenzio carico di dolore.
E forse cambia idea David.
Forse in tutto questo dolore e in tutto questo schifo c'è ancora umanità, sembriamo leggergli negli occhi nell'ultimo secondo.
E quando c'è ancora umanità c'è sempre ancora speranza.

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