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Serve a qualcosa andare a messa? Quanta letteratura - parte III

Creato il 09 maggio 2011 da Sulromanzo

Serve a qualcosa andare a messa? Quanta letteratura - parte IIII due post precedenti (primo e secondo) servivano, come ho già scritto, a direzionare il mio tentativo di descrizione; troppe volte, per alcune ragioni che ho imparato a conoscere negli anni, anche se a volte ancora oggi mi sfuggono le profonde implicazioni, ho scoperto di avere di fronte interlocutori che non afferravano quanto sostenevo – complicato comprendere se sbagliato il mio linguaggio o l’orecchio altrui o entrambi quando vi sono associazioni emotive interiori che talvolta degenerano in conflitti dialettici –, oppure la discussione si inalberava in tangenti argomentative distanti dalle questioni iniziali, con la conseguente difficoltà di riportare ordine nei ragionamenti, per quanto frammentari. Perciò, non sono persuaso che alcuni post possano avere l’ardire di semplificare, spiegare, rappresentare un mio pensiero strutturato definitivo, ma, ripeto, un tentativo di descrizione sì, questo sì.

Ci siamo lasciati la scorsa volta con due concetti: solitudine e conforto.

l mio tentativo di descrizione,Non so se conoscete il libro "L'ultima lezione – La vita spiegata da un uomo che muore" di Randy Pausch (con la collaborazione di Jeffrey Zaslow), edito da Rizzoli nel 2008, che vi consiglio caldamente, inizia così: “Ho un problema di sistema. Benché abbia sempre goduto di una forma fisica strepitosa, ho ben dieci metastasi al fegato e mi restano solo pochi mesi di vita”. La sua vita, la storia è vera. Oggi Randy non c’è più. Un professore universitario, con una carriera e una famiglia invidiabili, si trova a raccontare il suo ultimo periodo d’esistenza prima del trapasso. A pagina 198 scriveva: “Gli ostacoli esistono per una ragione. E quando si superano – anche se qualcuno ha dovuto praticamente spingervi – può tornare utile agli altri come esempio da tenere a mente”.

Da un punto di vista differente, privilegiato e senza malattie, ho il medesimo pensiero, spero che questi post possano tornare utili come esempio da tenere a mente. Lo dico con chiarezza perché qualcuno mi ha detto se abbia senso esporsi pubblicamente su una faccenda così delicata e personale. Penso di sì, se non altro perché la mia vita è ciò che conosco meglio da trentatre anni. E per un altro motivo: ho sempre mal digerito che chi decide in Italia di compiere scelte religiose diverse da quelle che ha ereditato, come nel mio caso con l’abbandono della chiesa cattolica, sia giudicato spesso come atto che manca di serenità. Non è mancanza di serenità, è rispetto. Siccome rispetto chi crede, non potevo stare nel limbo, non potevo essere né carne né pesce, se non sono cattolico perché continuare a rendere vivi nell’indifferenza spirituale il battesimo e gli altri sacramenti? Non è carta, non sono documenti, sono scelte serie.

C’è chi vive benissimo senza porsi domande sui principi, c’è invece chi ne è ossessionato, come il cibo per Algernon, e non può delegare ad altri i tentativi di risoluzione interiore. Altra questione, a proposito di delegare. Un credente, se seriamente credente, può trovare sempre una risposta nelle Sacre Scritture, perché verità, perché parola di Dio. Se non c’è una verità, se non c’è un Dio che ha rivelato parole sacre, non rimane che un passo vicino all’altro con continui dubbi. Non che il credente non abbia dubbi, eppure la fede può divenire una consolazione o una speranza. Non per il non credente, che non ha né consolazioni né speranze che emergono da altro che non sia il suo chiedersi e rispondersi senza essere sorretto da bastoni altrui. Ho la tentazione di affermare che il viaggio spirituale per un non credente sia meno comodo, ma non ne sono sicuro, dato che non vivo entrambi, ma soltanto uno pienamente, escludendo l’altro.

Di recente mi sono trovato vicino a tanti credenti, dentro una chiesa, durante il Sabato Santo, accompagnavo una persona, credente. Non sento ostilità interiori se ascolto una messa, ero lì per un gesto di vicinanza spirituale verso chi accompagnavo. Tuttavia provavo indifferenza verso i riti, verso le parole, durante i miei primi anni lontano dalle chiese sarei stato più sensibile, un po’ come i primi anni lontano dalla carne – sono vegetariano –, quando sentivo il profumo di pollo vicino a una rosticceria, avevo l’acquolina in bocca, ero coinvolto dalle emozioni fisiche. A distanza di tempo tutto cambia, le associazioni vengono meno. Ricordo che da adolescente quando ascoltavo una canzone che avevo sentito forse centinaia di volte durante le attività parrocchiali provavo emozioni, una fusione di malinconia e gioia, le percepivo sulla pelle. Poi, negli anni, anche quelle si attenuano, diventano piccole, perdono il potere che possedevano un tempo. Così accadde il recente Sabato Santo, ascoltai nuovamente alcune canzoni che conoscevo, ricordi lontani, nessuna emozione particolare. Ho ascoltato con attenzione le parole pronunciate dal sacerdote, così come le letture, da non credente sono rimasto in rispettoso silenzio per l’intera funzione, ma interiormente scorrevano in me domande, tante domande. Perché ad ascoltare certe frasi non si può che rimanere sconvolti da un punto di vista distaccato, non si trova una logica, non si trova una coerenza, tutta una serie di riti secolari il cui unico e vero fondamento è rappresentato dalla fiducia da parte di chi ascolta, fiducia nutrita attraverso numerose modalità. Una volta che tali modalità si tengono lontane, cade la fiducia, inesorabilmente. Se un tempo, ascoltando una messa, avrei sorriso con presunzione, oggi, con più calma e forse maturità, rimango indifferente. Non c’è una sola parola di quanto ho ascoltato che trovavo interessante, perché non poggiano sulle mie strutture interiori in base alle quali conduco la mia vita, non stimolano gli intrecci interiori che guidano le mie scelte.

Se non credo in Cristo, è evidente che la sua vita e la sua morte mi rimangono del tutto indifferenti. Se non attribuisco alla Sacre Scritture e alla storia del cristianesimo il significato spirituale e simbolico dei credenti, è evidente che non posso provare emozioni durante una messa. Quando il sacerdote chiedeva di rinunciare a Satana, per esempio, sono rimasto indifferente, il rito ha portato tutti a esclamare “rinuncio” con un’intensità partecipata, e io lì, che mi chiedevo per l’ennesima volta quanto ridicola sia anche l’idea di Satana. Eppure la questione non è risolta.

Serve a qualcosa andare a messa? Quanta letteratura - parte III
Attorno a me, durante la funzione, c’erano persone assai diverse fra loro, nonostante la comunanza religiosa. C’era una signora che si reggeva a malapena, anziana, non aveva qualcuno vicino, un marito o una figlia, era sola, è uscita dalla chiesa sola senza salutare nessuno, con la sua dolce lentezza. L’ho osservata. Nella sua debolezza fisica che cosa cercava quella sera di Sabato Santo se non conforto? Un conforto autentico forse, quanto il desiderio di conforto umano e il conforto che offre la fede coincidono?

C’era una coppia di giovani, vicino alla porta, in piedi, perché le sedie e le panche erano tutte occupate. Si tenevano per mano in segreto, con timidezza e prudenza. Recitavano e cantavano entrambi. Li ho osservati. Non deboli nel fisico, ma chissà come sono le loro vite, quali problemi e quali preoccupazioni. Sembravano sereni nel partecipare alla messa, anche loro cercavano conforto. Non posso sapere se dalla forza spirituale del gruppo, se dalla fede, se dal cammino comune nella religione, in ogni caso i loro visi mi ispiravano tenerezza, una ricerca di conforto soddisfatta.

Una prima domanda: quale diritto possiede un non credente di criticare il desiderio di conforto altrui?

Seconda domanda: quale diritto possiede un non credente di criticare il desiderio di sentirsi meno soli partecipando a una messa?

Una persona credente che partecipa a una messa non può che cercare uno stato di benessere, sarebbe perverso e non probabile che cerchi invece uno stato di malessere. E dalla notte dei tempi un rito religioso si celebra grazie all’influenza del gruppo, fra simili potremo affermare. Si abbandona per qualche tempo la solitudine fisica per entrare in dinamiche gregali. Poi che venga meno la solitudine psicologica è un altro discorso.

Per queste ragioni sottolineavo l’importanza di due parole: solitudine e conforto. Partecipare a una funzione religiosa diminuisce la solitudine fisica e aumenta il conforto. Sono convinto che siano due voci importanti della fede. Ridicolo criticare negativamente tali desideri in una persona credente. Con il dovuto rispetto, è come se qualcuno mi criticasse la voglia di leggere e la mia passione per il tè verde, non avrebbe alcun senso.

Capite bene che la risposta alla domanda del post è quindi chiara, per chi crede. E per un non credente non ha senso porsi la domanda, perché le sue strutture di valutazione del mondo sono diverse, si ergono su fondamenta differenti.

Non intendevo con questi post giungere a chissà quale profonda riflessione, a volte però è bene ricordare anche le cose più semplici, per non attribuire loro minor significato nel tempo.

Inoltre, vi sono domande che si conficcano nella testa a fasi alterne, con un vigore che cavalca situazioni e momenti della vita. Ho riletto qualche mese fa per la terza volta “Fontamara” di Ignazio Silone, un romanzo che ho sempre giudicato una delle perle del Novecento italiano, per tante ragioni. Da non credente, che non significa di necessità ateo, ma potrebbe avere molti significati (sono così importati le categorie religiose di appartenenza per un essere umano?), mi ritornano sempre in mente le seguenti parole di “Fontamara”: “Che fare? Dopo tante pene e tanti lutti, tante lacrime e tante piaghe, tanto odio, tante ingiustizie e tanta disperazione, che fare?”.

Ho una certezza sul fare. Frequentare anche persone diverse da me, con credenze religiose diverse dalle mie, mi ha permesso di diventare più tollerante, più comprensivo. Non cambio idea su alcune caratteristiche comuni che ho sempre osservato in chi è credente (stesso discorso per cristiani, islamici, induisti, ebrei, ecc.), riconosco le diversità di approccio verso i mondi interiori in primo luogo, ma questo non deve, o meglio, non dovrebbe donare la presunzione al non credente di liquidare argomenti delicati spirituali con i proprio parametri di valutazione. E questo vale altresì per il verso contrario.

Rimane la domanda: che fare?

Che cosa fare quando all’interno di un regime politico come il nostro urge il bisogno di confrontarsi su eutanasia, aborto, divorzio, unioni per gli omosessuali, rapporti fra Vaticano e Stato italiano e altre tematiche nelle quali le visioni spesso non coincidono fra chi crede e chi non crede?

Possibile che i temi dipendano non da un ordine condiviso di confronto ma dalla forza della maggioranza di turno?

Perché se andare a messa è un fatto anzitutto privato, quando si accendono dibattiti di natura pubblica, che richiedono una valutazione condivisa, tutto si complica, e da non credente non posso anteporre la solitudine e il conforto altrui se le mie idee sono offese e messe all’angolo come sbagliate perché c’è una maggioranza cattolica di cittadini. Che fare?


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