Il 2008 ci consegna un Brillante Mendoza che finalmente risulta (in particolar modo) nell’area visiva molto più convincente se confrontato a tutti i suoi lavor(ett)i precedenti. La torta delle motivazioni è divisa in due fette, una riguarda l’accumulo d’esperienza maturato nel lasso di tempo intercorso dall’esordio, e l’altra, che ha una consistenza ben maggiore, è la presenza di Didier Costet nelle vesti di produttore. Il francese, che da questo momento in avanti fungerà sempre da supporto economico per il filippino, fa pesare parecchio gli euro messi sul tavolo, cosicché Mendoza potrà maneggiare attrezzi più consoni al mestiere che fa. Non siamo a conoscenza dell’armamentario tecnico che era in dote all’autore nel passato, come non lo siamo per Serbis, certo è che anche ad un occhio profano come il nostro è palese il cambio di rotta estetico capace di condurre il cinema di Mendoza nel porto della modernità. Questa riflessione ne innesca immediatamente un’altra, perché preso atto del cambio d’abito, svestendo l’opera del suo nuovo smoking, si scopre con una certa sorpresa che la sostanza non si discosta granché da quello che Mendoza ci aveva abituato fino a quel momento, eppure questa volta il tutto è nettamente più piacevole. Allora possiamo già trarre una prima conclusione: il nocciolo è importante, ma anche il guscio recrimina la sua parte.
Che Mendoza disponga di mezzi più ingenti e che al contempo sia entrato in una fase di maturazione, ce lo fa capire lui stesso, non senza una bella dose di sfacciataggine, nei crediti iniziali in cui si ode ripetutamente il rumore della pellicola che avanza nel proiettore. Brillante dà quindi un forte segnale dei suoi passi in avanti, lui che ha praticamente girato sempre in digitale incastona ora il suo settimo film nel rinomato nastro di triacetato di cellulosa. Se ciò non fosse sufficiente, si raggiunge l’evidenza con l’ambientazione; finalmente, di nuovo, vengono abbandonati i miseri rioni filippini in favore di un luogo sostanziato dalla medesima povertà ma che possiede significati ampi: un cinema, un cinema porno gestito da una famiglia… molto allargata. Si evince perciò un’intenzione precisa da parte di Mendoza nel recintare il suo discorso all’interno di uno steccato fortemente autoriflessivo perché quando il cinema riprende il cinema i livelli di comprensione/interpretazione si stratificano.
Dunque al primo impatto è ovvio annoverare i fatti che accadono in superficie, ce n’è per tutti i gusti: sospettose irritazioni cutanee, bigamia, tradimenti, gravidanze indesiderate, rapporti occasionali finanche orali mostrati senza pudore. Diciamo che per il Sentimento sono tempi bui da queste parti, non per niente il film si apre con una delle figlie che ripete davanti allo specchio i love you, parole a cui seguiranno situazioni che si tengono ben alla larga da qualunque forma di effusione, e l'autore è pronto ad esporre tali situazioni non senza una certa malizia che però non si dà mai con gratuità ma anzi si subordina obbediente all’ordine naturale degli eventi. Se però si tiene conto che la cornice di tutti gli intrecci è una sala di proiezione, allora bisogna salire qualche gradino più sopra e mettersi nell’ordine di idee che il cinema è pur sempre lo specchio della società, e una sala a luci rosse non può che attirare a sé i suoi figli smarriti della città (occhio al sottofondo metropolitano) che nel buio trovano il piacere effimero di un servizio, un po’ come gli spettatori solitari di Tsai Ming-liang in Goodbye, Dragon Inn (2003).La luce taglia l’oscurità ma non è sufficientemente forte a rischiarare i paganti – e non specifichiamo di quale biglietto – che continuano ad accorrere fra le poltroncine. Il cinema è pur sempre un posto piacevole in cui potersi rifugiare.
Mendoza si porta dietro ancora qualche scoria, in particolare nella penna che reduce dall’appena precedente Tirador (2007) fatica a trovare l’equilibrio della sceneggiatura. Per ‘sta volta gli abboniamo tranquillamente le depressioni narrative perché il film viaggia bene e poi ha un finale inaspettato che, parola di lupetto, scotta!