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“Dio ci ha messo sette giorni a creare il mondo…io ci ho messo sette secondi a distruggere il mio.”
Tim Thomas è un illustre ingegnere aerospaziale, che, dopo essere stato travolto da una terribile tragedia, decide di andare alla ricerca di sette persone che possano meritare un suo speciale, inconsueto e impensabile “dono”.Per trovare questi speciali destinatari Tim si finge, avendo sottratto al fratello Ben il suo tesserino, di essere un agente del fisco così da entrarvi più facilmente in contatto. Tuttavia, tra di loro c’è una donna, Emily Posa, che potrebbe far vacillare l’obiettivo originale di Ben-Tim e portarlo a riflettere su quanto sia più importante vivere o lasciare vivere.
“Sette anime” è un altro esperimento cinematografico del nostrano regista, Gabriele Muccino, che lo fa rincontrare artisticamente con il bravo attore Will Smith che però questa volta veste i panni di un redentore. Infatti, se nella pellicola precedente (“Alla ricerca della felicità”) Smith insieme al suo tenero figlioletto va alla ricerca di una felicità senza dubbio venale, qui invece tenta di dare la felicità o almeno una seconda possibilità non solo a se stesso, donando qualcosa a qualcun altro, ma anche a persone che magari non chiederebbero mai un aiuto e che tuttavia meritano di riceverlo. Un soggetto, quello scritto da Grant Nieporte, che potrebbe essere ritenuto molto interessante, ma che è reso in modo molto confusionario, e ciò perché probabilmente il regista ha pensato di più a cercare con continui e quasi fastidiosi flashback di rendere il racconto appassionante e intrigante, anziché di portare sul grande schermo la storia di un uomo distrutto da una fatale tragedia. Infatti, per quasi i tre quarti del film, lo spettatore è pervaso da un’ansia che Muccino vorrebbe fosse stata creata dal modo in cui è raccontata la storia. In realtà chi guarda confonde l’ansia con la perplessità e aspetta che ci sia una svolta nella narrazione che possa fargli cambiare idea, ma questo non accade anche perché sin dall’inizio è chiaro quale sarà il finale. Un altro problema è proprio questo finale che, pur sembrando inaspettato, è evidentemente reso in maniera sbrigativa e quasi abbozzata, perché lo scioglimento dello pseudo giallo avviene nel giro di una scena di circa cinque minuti. Sembra, infatti, che Muccino abbia dimenticato la sua indole cinematografica squisitamente italiana per darsi a quella spiccatamente hollywoodiana, creando un finale veramente forte dal punto di vista visivo e che ti stringe il cuore, ma che tuttavia ti lascia con un punto interrogativo sul vero motivo di determinate scelte del protagonista, facendolo apparire come un eroe tragico o come un dio redentore che per espiare la sua colpa sceglie di aiutare i buoni che non voglio essere soccorsi. Ritengo che, se l’intento di questo film è di animare discussioni sul tema della “donazione”, Muccino, pur in maniera mediocre rispetto alla sua prima opera italo-americana, è riuscito nell’intento tanto che il pubblico è andato in massa a vedere il suo ultimo lavoro cinematografico, che nonostante tutto ha fatto riflettere gli spettatori su come la felicità possa essere conquistata capendo l’importanza e la bellezza del “dono”.