La prima è una recensione apparsa su Abulico. Lo scaffale editoriale, a cura di Luca Ciavatta.
Tra le altre cose c'è questa ottima valutazione:
Sette sono i re è libro portentoso. In bilico tra finzione e realtà, il romanzo di Angelo Ricci si rivela più che mai attuale e contemporaneo. Una trama originale che cattura pennellate di comunicati giornalistici, un’ambientazione verosimile che sorprende e incuriosisce, un intreccio che trasporta e logora al tempo stesso. Il testo è valido e appassiona come pochi, la scrittura asciutta rende la lettura veloce e spedita, la trama, come già detto, conquista. In definitiva, un libro che prende e che si legge tutto d’un fiato.La seconda è una bellissima intervista recensione a cura di Giovanni Agnoloni, apparsa su postpopuli.it
Sette sono i re, di Angelo Ricci, è un libro duro. Duro e bello. Un libro elettronico che avrebbe meritato tutti gli onori della carta. Un romanzo di mondo mercenario, condito da retrogusti di Medio Oriente e soprattutto di ex-Jugoslavia. Una storia in prima persona, dalla voce di un professionista del cecchinaggio, protagonista di una storia senza speranza, al centro di un crocevia lombardo fatto di discariche tossiche e omicidi plurimi. E di “contratti” portati a termine.
La scrittura di Angelo Ricci è tesa, secca, essenziale, e trascina di riga in riga, di pagina in pagina, fino a una conclusione amara, che non delude. È l’opera di una penna felicissima. Viene da chiedersi perché libri così non escano con grandi case editrici. A maggior ragione, un plauso al suo editore elettronico per avergli dato spazio lo spazio che stramerita.
1. Sette sono i re: una filastrocca, il testo di una canzone dei Bandabardò. Perché questo titolo?
Quello che mi interessava era scrivere una storia che delineasse una sorta di allegoria del potere, della sopraffazione, di quella storicamente infinita manifestazione dello sfruttamento dei molti da parte dei pochi; una storia che apparisse come un affresco alla Bruegel o alla Hieronymus Bosch. Quel testo di quella canzone era perfetto, con la sua tragica e tuttavia gioiosa critica del potere, nell’ottica dei cantastorie e dei menestrelli che da sempre hanno descritto le contraddizioni dei tempi. E il suo titolo ben si addiceva a una storia di questo tipo.
2. Il tema, forte e cocente, è il frutto di una tua ricerca personale sui fenomeni del mercenariato e delle discariche abusive?
Sette sono i re è il frutto di una ricerca personale approfondita. Tutti i riferimenti storici, politici, tecnici, persino balistici, sono veritieri. Poi il tutto è stato immerso in una storia dai toni forse fantastici, onirici, da realismo magico. Ma come scrive Julio Cortázar nelle sue Lezioni di letteratura: “Allora non è così facile uscire dal fantastico ed entrare nel cosiddetto realismo; ci sono una serie di zone intermedie che non posso passare sotto silenzio. (…) Mi spiego: intendo per realismo simbolico un racconto – o anche un romanzo – che abbia un tema e uno sviluppo che i lettori possono accettare come perfettamente reale per poi rendersi conto, avanzando nella lettura, che sotto la superficie strettamente realista si nasconde qualcos’altro che è anch’esso realtà, ancora più realtà, una realtà più profonda, più difficile da captare. La letteratura è capace di creare opere che si prestano a una prima lettura perfettamente realista e a una seconda lettura nella quale si vede come, in fondo, questo realismo stia nascondendo un’altra cosa.” (Julio Cortázar, Lezioni di letteratura. Berkeley, 1980, Einaudi 2014, traduzione di Irene Buonafalce).
Credo che Sette sono i re abbia proprio come intendimento quello di far scoprire al lettore quell’altra realtà più profonda nascosta tra le pieghe della narrazione, quelle zone intermedie che non possono passare sotto silenzio.
3. Come sei riuscito a entrare nel punto di vista del cecchino protagonista?
Quando mi appresto a pensare, a scrivere un racconto o un romanzo, mi soffermo sempre sulla questione della prima o della terza persona. In alcune mie opere precedenti ho usato la terza, in altre ho usato entrambe, in altre ancora la prima. È una questione fondamentale per la gestione del punto di vista narrativo. In genere aspetto che i personaggi mi appaiano, mi parlino, si manifestino in qualche modo, mi mostrino loro la strada stilistica che dovrò percorrere, anzi che dovremo percorrere insieme. Per Sette sono i re il personaggio del cecchino mi è apparso in tutta la sua fatalistica tragicità. Ed è come se mi avesse detto: tu adesso sei me e scriverai per me la mia storia. Ecco come è nata la nostra simbiosi narrativa, una simbiosi che ha unito scrittore e personaggio. Così sono entrato nel suo punto di vista, perché lui per primo me lo ha permesso.
4. Le venature stilistiche noir del romanzo non contraddicono la sua letterarietà, anzi. Un altro (se mai servisse) segnale dell’inutilità delle rigide ripartizioni tra i generi?
Rifuggo sempre dalle ripartizioni tra i generi. Non mi interessano. Le trovo inutili e limitanti. Mi interessano invece le contaminazioni letterarie, le ibridazioni narrative. Come giustamente dici, Sette sono i re è un segnale in questo senso, come, d’altra parte, tutto quello che ho sempre scritto e scrivo tuttora.
5. Dopo i primi due “atti” de La parte di niente, opera d’ispirazione più erudita, ecco la vita nel suo sporco concreto. Che cosa, come autore, sollecita maggiormente la tua creatività?
Le contraddizioni, storiche, politiche, umane. La sopraffazione, la violenza. L’indifferenza del potere. Le zone grigie dell’anima. Le figure che scelgono di stare, spesso con tragica e consapevole fierezza, dalla parte sbagliata. Le fratture invisibili del quotidiano, da cui scaturiscono dolore, mistero, ma anche pietà, dignità spesso eroica. Ecco quello che sollecita la mia creatività.
6. I tuoi nuovi progetti letterari?
A brevissimo, e credo entro luglio, sempre per i tipi elettronici della Antonio Tombolini Editore, e sempre nella collana Officina Marziani, collana diretta da uno scrittore che stimo moltissimo, Michele Marziani, uscirà un mio altro romanzo, L’odore del riso. Più avanti, nella stessa collana, uscirà la versione digitale del mio primo romanzo, Notte di nebbia in pianura, che nel 2008 fu pubblicato da Manni. E poi uscirà, edito dalla Errant Editions diretta da Francesca Mazzucato, altra scrittrice che stimo moltissimo, la parte conclusiva della “efferata trilogia” de La parte di niente, dal titolo La parte di niente III, la parte degli editori.