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Non sono solo sette gli uomini invisibili. Nella filmografia di Bartas ogni uomo da lui ritratto è un fantasma, un ologramma la cui massima preoccupazione è quella di fumare e/o di bere. Esseri-non-esseri fuori dalla società, oltre questo mondo, e lontani, lontanissimi da un qualunque dio.
Da Three Days (1991) in avanti l’autore lituano ha insistito sempre sugli stessi temi con i medesimi mezzi risultando spesso e volentieri estremamente pesante. Noto però di come da Freedom (2000, il suo lavoro migliore insieme a questo) in poi abbia ridotto la produzione che prima viaggiava ad un film ogni 2/3 anni. Ne giova il risultato complessivo perché Seven Invisibile Men supera di slancio le indecifrabili opere comprese fra il ’94 e il ’97, riuscendo ad essere perfino (PERFINO!) coinvolgente in alcuni passaggi.
I trademarks bartassiani vengono rispettati più o meno tutti: c’è l’assenza di spiegazioni per cui non sapremo esattamente perché il gruppetto è ricercato dalla polizia, come non è ben specificato il rapporto tra la donna e il capo, si intende che c’è stato un legame o che dovrà esserci con quelle fedi ma niente di più. Anche delle persone nella vecchia casa non si sa nulla, poco si apprende dalla bella ragazza mora che pare abbia avuto vicino il protagonista nel passato. Ma di tutti gli altri? Niente, sono entità scollate dal film. Sembrano far parte di esso per caso, e la loro presenza è giustificata dalle elucubrazioni dello spettatore che li struttura nella sua immaginazione, attivando così un processo di partecipazione al film differente da come solitamente si intende "partecipare".
Sul versante tecnico si ripetono nuovamente le medesime condizioni con parentesi musicali latitanti sostituite dall’imperscrutabile brusio in sottofondo tipico di Bartas. Le riprese poi poggiano sempre su uno zenit fatto di primi piani ultraterreni in cui gli occhi degli attori si offrono tristi e sconsolati, bilanciate da un nadir costituito da campi lunghissimi nei quali gli elementi naturali come il sole, il vento, o gli stessi prati giallastri calpestati da pigre mucche conferiscono un senso di malinconia non tanto inferiore a quella impressa nei volti umani.
Il momento di aggregazione, altro segno inconfondibile non solo del lituano ma un po’ di tutti gli autori est europei, giunge dopo un’ora di proiezione e si protrae fino alla fine del film. Questa volta non è il solito goffo ballo stile The Corridor (1994), piuttosto un simposio sulle macerie della vita che questi poveretti continuano a macinare. Il segmento dura circa 50 minuti in cui si alternano gli altri ambienti della casa dove alcuni personaggi vagano ubriachi. Ed è decisamente un gran bel vedere. Vuoi per la deliziosa fotografia ambrata, vuoi per il “ritmo” sostenuto con cui la mdp rimbalza da un personaggio all’altro del tavolo che canta, delira, parla di fede, di donne, piange, impreca. E il bello è che non c’è un filo conduttore, molti di questi uomini non si vedranno quasi per niente prima del banchetto.
Sorprende anche e soprattutto per l’accumulo inaspettato dell’attesa, d’una leggera suspense che non profetizza nulla di buono. La preghiera della donna anziana è il punto di non ritorno, chiede aiuto alle alte sfere ma da lassù non paiono particolarmente interessati a quel mucchio di piccoli uomini, per cui possono anche morire nel bruciante finale. Un finale rapido, inaspettato e con qualche limite di comprensibilità. Ma trattandosi di Bartas ce lo facciamo ampiamente andar bene, e poi che segmento centrale, da applausi!
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