Da qualche tempo le pose plastiche di Abbath sono diventate materiale per meme, o per cazzeggio internettiano in generale; immagino non ci sia bisogno di scendere troppo in dettagli per spiegare la cosa, anche perché pure noi sulla nostra gloriosa pagina facebook abbiamo abbondantemente divulgato il divulgabile. Insomma, la novità degli ultimi mesi è che il suddetto pinguino del Male ha iniziato a cavalcare l’onda, gettando a mare ogni residuo di credibilità grim e concedendosi a photosession su questo stile; diciamo che è stato al gioco, e così facendo ha eliminato anche la necessità di fotomontaggi con la sua faccia perché, in qualunque modo ci si voglia sbizzarrire con le vecchie foto e una copia craccata di photoshop, non si arriverà mai a questi apici:
notare il gessato con le maniche arrotolate
E poi è arrivato anche l’eponimo debutto solista. Che è perfettamente contestualizzato in questa scia, e cioè: è un disco pienamente in linea con gli ultimi Immortal, quelli per intenderci da At the Heart of Winter in poi, da quando il timone della band è stato retto solo da Abbath. Non c’è nulla di diverso, quantomeno a livello stilistico; perché poi se parliamo di atmosfera il discorso è un altro. Gli Immortal erano basati soprattutto sull’atmosfera che riuscivano a creare, come accadeva per ogni gruppo black che si rispettasse; e in questo il qui presente Abbath, purtroppo, difetta parecchio. Svuotato dal suo nucleo ghiacciato, il suono-Immortal ne esce come quello di un generico gruppo estremo blackeggiante, con fasi di tupatupa per far muovere il piedino, blastbeat classicamente “da pogo”, un vago alone di misticismo alcolico e una struttura davvero troppo complessa per essere accostabile al genere, o quantomeno alla vecchia concezione di quel genere che gli Immortal stessi hanno contribuito a definire in maniera fondamentale.
In Winterbane c’è uno stacchetto che richiama Blashyrkh Mighty Ravendark, ma lì ti veniva quasi di crederci, al corvo nero che sorveglia le anime dei morti trasformando i nemici della fiamma in ghiaccioli all’amarena; qui invece aspetti semplicemente la ripartenza per riprendere a fare tupatupa con le mani. Tra tutti i dischi in cui Abbath a suonato a vario titolo nella sua vita, questo è quello più cazzeggione. Non è un brutto disco, e neanche noioso: anzi, vi confesso che con gli ascolti cresce discretamente. Ma non c’è il freddo, non c’è epica, non c’è Bergen, non ci sono i crudeli winterdemons, non ci sono le tempeste di neve, non c’è quella cazzo di sensazione di lame glaciali che entrano nelle carni. Non ci sono gli Immortal. Stilisticamente sì, è tutto al posto giusto, magari un po’ più blastone e autoreferenziale, ma manca la magia, manca totalmente.Senonché qualche anno fa, come non so quanti di voi sapranno, uscì il debutto solista di Demonaz, March of the Norse, a cui non è mai peraltro stato dato un seguito. L’album ricevette una recensione freddina su Metal Skunk, ad opera di Fabrizio Socci detto ‘il doom’ o anche ‘l’uomo che non rispondeva ai messaggi’. Non so per quale cazzo di motivo Socci ne parlò male, ma del resto stiamo parlando di un uomo che dorme avvolto in un sudario dentro a una bara foderata di velluto viola con gli Esoteric di sottofondo, quindi penso sia anche consigliabile non porsi troppe domande. E invece, o amici del vero metal, con tutto il rispetto per un uomo della dirittura morale del Socci, io vi dico che March of the Norse è un capolavoro assurdo che dall’epoca della sua uscita avrò ascoltato centinaia di volte; e come me anche i miei fidi compari di sodomia Ciccio Russo e Charles; di più: March of the Norse è stato (e continuerà ad essere in futuro perché questa tradizione rimarrà finché non moriremo, madonna giornalista!) una delle colonne portanti delle nostre cene a base di fagioli cannellini e sbarre di metallo innevato al sugo di capriolo.
March of the Norse è stilisticamente diversissimo dagli Immortal; non è black metal, e neanche metal estremo nella più larga accezione del termine. È una versione più lineare e diretta dell’epica di Bathory e Manowar, Blood on Ice ed Into Glory Ride, con le canzoni che tendono ad avere la stessa metrica, lo stesso tempo, lo stesso riff e chiaramente un solo costante tema lirico. Ha un respiro ampio, amplissimo, con atmosfere ariose e andatura cadenzata, accordi aperti e melodie da occhi chiusi e vento che ti sferza la faccia. Epic metal. Concettualmente, è la versione grim & frostbitten dello stoner rock. Anzi: l’unico stoner rock davvero possibile a Bergen.Il paragone tra i debutti solisti di coloro che furono le due anime degli Immortal è impietoso. Sono due generi diversi, d’accordo, ma entrambi hanno una radice comune e, probabilmente, un obiettivo comune: riportare sul pentagramma i panorami norvegesi come accadeva nella band d’origine. Abbath ha cercato la scorciatoia, non scostandosi di una virgola dal suono di Sons of Northern Darkness e All Shall Fall; e ha fallito miseramente, perché il suo debutto è buono giusto per andare in macchina d’inverno in hangover o per fare casino a qualche festival in cui suonerà. Il suo vecchio compare invece ha cambiato tutto, scarnificando il suono e la struttura, deviando il tiro, epperò lasciando intatto lo spirito dei vecchi Immortal, come un cuore pulsante di ghiaccio nascosto nelle viscere ctonie di un monte sferzato dai venti del Nord. La differenza sostanzialmente si può sintetizzare così: il disco di Abbath è divertente, specie se ci bevi sopra la birra del discount e sai che dovrai uscire fuori al freddo di febbraio per fumare una sigaretta e quindi entri in quel mood; il disco di Demonaz è una cosa seria. Ora immaginate come da queste parti stiamo aspettando il nuovo disco degli Immortal, retti di nuovo da Demonaz dopo quasi vent’anni, e quanta voglia abbiamo di farlo recensire al Socci. Attendiamo pazientemente.