Ex soldato americano in Iraq, David (Jake Muxworthy) cerca di dimenticare l’orrore della guerra dedicandosi a un viaggio in Europa attraverso la sua mountain bike. Arrivato al picco “The Shadow”, incontra in un rifugio Angeline (Karina Testa), ma anche due cacciatori dall’aria tutt’altro che amichevole. David e Angeline si incontrano nuovamente nel bosco, e tra loro nasce qualcosa. Ma al riapparire dei due cacciatori, ecco che comincia il loro incubo.
Il primo protagonista è il bosco, in questo horror dal sapore decisamente nostalgico. Si inizia con una ripresa aerea che pian piano ci addentra nella natura della montagna centroeuropea, e subito si ha il senso che debba accadere qualcosa di terribile. Nella prima parte spiccano evidenti forzature narrative e cliché che rendono la sceneggiatura ricca di situazioni e di personaggi stereotipati, presi a modello dal cinema di genere anni 70 e 80. Zampaglione deve averne visti molti, di film di genere. Shadow è una pellicola figlia di registi come Dario Argento e Lucio Fulci, ma anche (e soprattutto) un omaggio alle loro creazioni. Echeggiano poi i vari Craven, Hooper e Boorman. E fa niente se a un certo punto sembra di assistere a un ibrido tra Rambo (le trappole disseminate nel bosco) e la riproposizione dei classici temi “argentiani” (specie per l’intersezione delle musiche e per i primi piani dedicati alle armi insanguinate). L’operazione è chiara: ricalcare uno schema dal funzionamento assicurato e avere la forza di affermare che l’horror in Italia non è ancora morto (peraltro il film è stato girato in lingua inglese e poi doppiato). Nella seconda parte si tende al “torture porn”, anche se il sangue non sgorga a fiumi (ne saranno contenti i deboli di stomaco). Più che altro, la paura è nelle espressioni di un sorprendente Nuot Arquint (l’aguzzino Mortis), ballerino svizzero che centellina le sue presenze sul grande schermo (era apparso anche in Il Divo, di Paolo Sorrentino); la scena da ricordare è il suo tête-à-tête col rospo. Nei minuti conclusivi Zampaglione sceglie una soluzione certo non nuova (vedi Stay – Nel labirinto della mente e L’uomo senza sonno, per esempio), e della quale si poteva senza dubbio fare a meno. Tuttavia, il finale riscatta i difetti iniziali e rende Shadow un’affascinante opera simbolica, quindi non fine a se stessa. C’è aria di famiglia in questo film coraggioso: il padre del regista ha collaborato alla sceneggiatura, mentre il fratello alle musiche.