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- non una radiografia dell’uomo moderno, ma dell’uomo metropolitano. Trattasi di sinonimo probabilmente, tuttavia il regista inglese preme vigorosamente sulla città rendendola fisica e imponente. New York non è teatro di e nemmeno contenitore per, New York è parte attiva (e sorniona) del cast, presente sempre e noncurante altrettanto: è oltre la finestra dell’ufficio di Brandon con i suoi totem-grattacielo, è nelle parole cantate con un filo di voce da parte di Sissy, è, con tutta la sua invadenza, dietro il protagonista e la ragazza di colore durante l’imbarazzo del saluto, una scritta piccola sul cartello della metro, ma New York c’è e alla fine, con quella pioggia che martoria un uomo disintegrato, ne piange il futuro che non potrà essere mai diverso dal presente (l’ultimissimo campo-controcampo sul vagone).
Se il luogo diventa causa della deriva rappresentata o se ci sia dell’altro incastrato nelle maglie del passato non è dato saperlo, ed è giusto così. Non c’è bisogno di un bollettino eziologico né per Brandon né per Sissy. Qualcosa di brutto è successo, qualcosa di brutto sta accadendo: guarda caso (dato, ad esempio, lo spirito apolide della ragazza) proprio tra le spire della Grande Mela, la compagna silenziosa che agguanta il cuore, atrofizzandolo: il capo-ufficio sposato che non disdegna atteggiamenti libertini; le donne. Tutte (a parte una) creature fameliche prossime all’apatia sentimentale; e, ovviamente, Brandon.
- McQueen non fornisce un significato univoco al titolo. La vergogna è un’emozione che per conto di Brandon fa capolino in almeno due occasioni: quando viene colto da Sissy nel bagno, e quando si scopre che l’hard disk del suo computer è pieno di roba porno.
Ma questi sono eventi di basso rango, gocce che confluiscono in un vaso già ampiamente sporco.
La vera vergogna ha ben altri crismi ed il processo che la prende di forza per gettarla sotto l’occhio di bue inizia con la scena del ristorante. Oltre al fatto che la suddetta scena è ottimamente orchestrata grazie ai risvolti quasi comici col cameriere, il dialogo da mera routine si tramuta nella svestizione (ancora teorica) di un uomo che potrebbe avere tutto, e che di conseguenza non ha niente. Zoom su Brandon e collega seduti al tavolo e la rivelazione: “la mia storia più importante è durata al massimo 4 mesi”.
Questo è il prologo di un crollo che si concretizza all’interno dell’attico: la maschilità messa in gioco nell’atto di spogliarsi per davvero e la bandiera bianca di fronte all’evidenza.
Brandon non sa amare, tale è la vergogna terribile di cui lui stesso diventa consapevole, e colpevole.
- anche se, fino a qui Shame pur dicendo le cose piuttosto bene non costruisce un legame magnetico con lo spettatore. Il decollo verticale però non tarda ad arrivare, e la massiccia sequenza che racconta a ritroso enuclea l’epitaffio di un uomo d’oggi: non serve a niente liberarsi delle àncore che ormeggiano la propria vita, né i giornaletti (notevole l’effetto che simula una rapida “sfogliata”) né i vari oggettini gettati nella pattumiera possono riabilitare un’esistenza.
Il sesso diventa il senso unico, non importa nemmeno più con chi, con quanti, e la conseguenza è che non importa niente nemmeno dei legami consanguinei (la potente immagine di Sissy in un lago di sangue: ogni goccia un senso di colpa… ?), conta solo infilare il proprio cazzo in un buco [1] e soddisfare l’istinto.
Il sesso è la strada che ad ogni passo si sgretola e obbliga soltanto ad andare avanti; Brandon, uomo e fratello del nuovo millennio, nelle viscere sotterranee di New York è una bestia in giacca e cravatta che aspetta soltanto la sua preda.
Una delle tante prede uguali a lui.
____
[1] Il divieto ai minori di 14 anni (in America è andata peggio: v.m. 17!) penso sia dovuto all’esposizione solare del pene di Fassbender. Per carità, ci saranno delle regole, non so, ma le riprese nature non sono altro che elementi modellanti il personaggio che si mostra nudo - e senza vergogna - fin da subito.
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