Chiunque, anche tangenzialmente, si sia accostato allo studio della letteratura curda, avrà dovuto scontrarsi con la scoperta della sua natura soprattutto orale. Popolo di pastori transumanti, di nomadi, di guerriglieri, i curdi nell'arco della loro storia hanno accumulato un patrimonio immenso, e soprattutto difficilmente quantificabile, di storie, narrazioni, canzoni, leggende. Pur non mancando esempi, anche alti, di letteratura scritta a partire dall'XI secolo, si può tranquillamente affermare che l'indole più genuina delle lettere curde sia legata all'oralità. E, com'è facile congetturare, quest'indole dev'essere stata una delle armi fondamentali che ha permesso al patrimonio culturale curdo di salvarsi e di conservarsi, durante il secolo ventesimo, lungo l'avvicendarsi sempre più incalzante di discriminazioni, repressioni, divieti e dinieghi che ha visto questo popolo sempre e solo nella parte della vittima. Un libro lo si può sequestrare, togliere dalla circolazione, bruciare (tutti conosciamo Farehneit 451), ma una storia che si tramanda di bocca in orecchio e da genitore a figlio, è molto più difficile da controllare e da fermare. Si può anche arrivare a proibire in toto l'uso di una lingua, come fece la Turchia dopo il golpe del 1980, ma non sempre si può entrare nei cortili ombrosi o ai rossori dei focolari domestici, dove, fra aromi di thè e cardamomo, queste storie vivono. È da questo serbatoio orale che viene fuori anche questa epopea, Il Castello di Dimdim. Racconta la lotta integerrima e infine la resa orgogliosa di Khano Lapzerin ("dal braccio d'oro"), re curdo del XVII secolo, dominatore del castello di Dimdim, vicino al lago di Urmia (Iran), nel cuore del Kurdistan geografico.
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