Magazine Cinema
(Usa 2013, 96 min., col., fantascienza, drammatico)
Se il cervello dello spettatore si era fuso di fronte all’opera prima di Shane Carruth Primer, con Upstream Color esso si ri-solidifica in un’altra forma ben lontana da quella consona per un essere umano.
Trama?
Di solito, il secondo paragrafo delle mie recensioni sono dedicate alle trame, ma questa volta mi trovo in un’impasse: qual è la storia di Upstream Color? Sarebbe riduttivo scrivere un riassunto, pertanto ci si atterrà alla sinossi rilasciata per i vari festival: “Un uomo e una donna sono indissolubilmente legati al ciclo vitale di una creatura senza età che li priva della loro identità e li costringe a rimettere insieme i frammenti delle loro vite distrutte”. Se si aggiunge che di mezzo c’è anche Kris l’artista drogata (Amy Seimetz) a causa all’ingerimento di una larva che vive fra le radici delle orchidee (il regista fa della dipendenza da materiale estraneo una sua chiave narrativa ed è presente anche in Primer), un allevatore di maiali che fa dei trapianti fra uomini e suini per liberarli dalla suddetta larva, un broker fallito (lo stesso Shane Carruth) che instaura una relazione con la protagonista e che soffre del suo stesso mal di vivere, c’è davvero di che rimanere sconcertati. Ma tutto questo è solo la superficie…
Connessioni
Il secondo lungometraggio di Shane Carruth, dieci anni dopo il trip mentale Primer, è una vera bomba. La trama suddetta è ricavata dal tentativo perenne dell’uomo di spiegare tutto, per rendere tutto più chiaro, per sintetizzare e così via. Carruth c’insegna prima di tutto a vedere e a sentire, poi a capire, ma solo se si vuole. Bisogna apprezzare quello che si vede e che si sente, i sentimenti che ne scaturiscono perché si è al di là della razionalità e più vicini alla pancia oltre che al cuore. I legami che s’instaurano fra le varie inquadrature, sono connessioni emozionali e al massimo analogiche. Non si procede logicamente, ma sul piano della sensibilità. Ho compreso tutto? No. Mi è piaciuto? Moltissimo. Sembra una contraddizione, ma non lo è. Si è vicini a The Tree of Life di Terrence Malick? Vagamente, perché l’impressione è che Malick realizza un film per pochi (e per autocompiacersi aggiungo io, ma questa è un’altra storia), mentre Carruth realizza, parafrasando Nietzsche, “una pellicola per tutti e per nessuno”: tutti possono vederla e interpretarla, ma nessuno è in grado di cogliere tutti i suoi enigmi. I tentativi di seguire tutti i piani di lettura in una sola visione sono destinati a fallire, perché la mente umana, per amore di sintesi, sceglie una pista, che si tratti della storia d’amore fra la protagonista e il broker o quella dell’allevatore di maiali, o ancora, la vicenda dell’orchidea e delle larve. In realtà tutto è legato da un sottile filo che si vede e non si vede: si vede con l’occhio, ma non si vede con la ragione. È un mistero naturale, intriso di biologia e botanica, che parte dal “grande” per arrivare all’infinitamente piccolo laddove tutto è collegato, a differenza di The Tree of Life dove tutto era collegato, ma partiva dal “piccolo” per arrivare all’infinitamente grande spaziale e temporale (la scena dei dinosauri, ahimè, non si può dimenticare facilmente).
Mostrare le connessioni: analogie deviate e punti di vista multi-visivi
Curreth ha realizzato Primer e Upstream Color con dei budget davvero infimi (si parla di settemila dollari circa per entrambi). È autore, produttore, regista, attore, compositore e anche operatore di macchina. Notevole super-ego? No, cinema underground. Più indipendente di Carruth, e allo stesso tempo lontano da tutte le commedie indie alla Sundance (nonostante la sua partecipazione), non c’è nessuno. Fa film per se stesso? No, fa film per tutti quelli che reagiscono alle emozioni, ai suoni e alle immagini, ossia nessuno. Come si districa Carruth in questo grumo di piani di lettura? Con un’estetica dell’immagine magistrale. Le connessioni fra le immagini, sono legami per “analogia deviata” e il punto di vista è multi-visivo. Se, per esempio, il legame fra il maiale e la protagonista sono evidenti nella vicenda (operazione, nome attribuito al suino ecc.), meno lo sono le implicazioni narrative. Il fatto che la protagonista non possa avere figli è analogicamente riportato all’uccisione della cucciolata avuta dal maiale Kris (è il nome dell’artista) e dell’altro maiale (anonimo, ma si suppone essere il broker). La genialità di Carruth, insomma, risiede nella decisione di non accoppiare in montaggio, in tal caso, l’immagine di maiali che non riescono ad avere la cucciolata con l’immagine della coppia dei protagonisti, per far capire logicamente allo spettatore che si tratta degli stessi enti. Il regista, invece, associa l’impossibilità di avere figli con l’uccisione della cucciolata da parte dell’allevatore, cosa che razionalmente stonerebbe. Certo, razionalmente, ma non emozionalmente, anche perché l’allevatore che uccide la cucciolata è lo stesso che opera Kris salvandola da un cancro, ma impedendogli così di avere figli. L’uccisione e l’“eliminazione degli organi genitali femminili” sono, dunque, così associati creando un’analogia, ma deviata.
Un’altra caratteristica di Upstream Color, oltre alla sorprendente sonorità (quasi al di là della musica) e alla povertà di dialoghi, è il punto di vista multi-visivo. Una stessa sequenza, quasi fosse un clip musicale, è riproposta da più angolature. Lo scopo non è quello di accentuare il ritmo o dare musicalità alla visione, come potrebbe essere il caso di un videoclip, ma di mostrare un punto di vista onnipresente. Lo sguardo è quello di un’essenza, l’infinitamente piccolo di cui sopra, che vede tutto e tutti da tutti i punti di vista. È un’essenza quasi divina che potrebbe essere associata alla visione dello spettatore o dell’allevatore, ma che in realtà va al di là di essi e che mostra (non spiega) l’inspiegabile all’uomo.
Tutto chiaro? No? Allora avete colto quest’essenza.
Mattia Giannone
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