> LoSpazioBianco" />> LoSpazioBianco" height="200" width="600" alt="Shangai Devil: Gianfranco Manfredi e il Postcoloniale secondo Sergio Bonelli Editore >> LoSpazioBianco" class="aligncenter size-full wp-image-63981" />
La ricerca di Manfredi sull’Ottocento arriva al quarto continente con la sua nuova miniserie Bonelli, Shangai Devil.
L’autore creatore di Magico Vento e di Volto Nascosto, getta il suo sguardo esperto di narratore sulla Cina della rivolta dei Boxers, all’alba del ventesimo secolo. Lo fa utilizzando Ugo Pastore, già protagonista di Volto Nascosto, spostandone l’azione dall’Africa all’Asia, in un ideale continuum narrativo.
In realtà c’è totale indipendenza tra le due storie: e
Ci piace pensare che nella stesura delle due serie, l’autore abbia giocato con quel confine molto netto che l’accademia pone tra letteratura coloniale e postcoloniale.
In Volto Nascosto, Manfredi descrive una dimensione interculturale, in cui però si legge una centralità dell’Occidente nella scala valoriale dei personaggi della storia, sia nei comportamenti, sia nella costruzione delle relazioni tra i protagonisti. Nell’universo di Volto Nascosto, abbiamo trovato una commistione molto serrata tra elementi che attingono alla letteratura d’appendice dell’epoca e la saggistica più moderna inerente quel periodo; è un mondo letterario, quello di Volto Nascosto, che porta il lettore nell’universo del feulliton del secolo scorso e che risulta molto filologico nella sua forma e sostanza:
In Shanghai Devil, viceversa, intravediamo maggiormente la visione postcoloniale della realtà asiatica.
Un po’ di terminologia: gli studi postcoloniali elaborano un modello che cerca di ricostruire un’identità indigena, identità che sia sciolta dalla lettura che il potere coloniale dà di essa. Alcune scuole, come quella Indo-Americana dei Subaltern Studies, si sono occupate della ricostruzione identitaria dei colonizzati attraverso un recupero della loro capacità di testimonianza nella storia. Quest’impostazione ha riscosso – ovviamente – una grande fortuna in letteratura: un’intera branca di romanzo inglese scritta da ex colonizzati è chiamata “postcoloniale”, ad indicare il ritrovato ruolo della narrazione che un popolo ha di sé stesso. È il caso, per fare qualche esempio, di Salman Rushdie, Vikram Seth, e Amitav Ghosh.
Venendo a Shangai Devil, la sua postcolonialità – a nostro giudizio – è frutto di un’organizzazione narrativa imperniata sullo sviluppo delle vicende interne Cinesi, con gli europei ridotti ad un ruolo marginale e calati in una realtà storica finalmente libera dal paradigma eurocentrico: i personaggi sembrano pensare cinese, applicano ai loro ragionamenti categorie di pensiero che non sono appannaggio della storia occidentale, bensì della loro, e tutto questo Manfredi lo trasmette attraverso un formato – quello Bonelli – che è tradizionalmente legato ad un formalismo italiano di racconto: il personaggio e l’azione di Tai Mien, per esempio; una caratterizzazione che ha a che vedere più con certa mitologia asiatica (e relativa narrativa) che non con l’archetipo dell’eroe mascherato occidentale; oppure la ridefinizione della donna-guerriero, della quale lo stesso autore rivendica l’“asiaticità” nella rubrica che accompagna il numero 6 (Hotel Europe).
Manfredi – Ghosh: uno stuzzicante parallelo
È sorprendente la similitudine di stile che il fumetto ha con la Trilogia dell’Ibis di Amitav Ghosh – ora giunta al suo secondo capitolo. Ciò che colpisce, è che non siamo nel campo della citazione o dell’ispirazione: nel bugiardino bonelliano di seconda di copertina non è mai apparso (per lo meno, non ancora) il nome d Ghosh: è più che altro un’affinità tra visioni – sempre considerando la diversità tra mezzi espressivi, un terreno che affascina entrambi, senza che l’uno o l’altro autore possano rivendicarne la paternità. Concludendo, nelle due creazioni di Manfredi l’equilibrio tra le due visioni – la coloniale e la postcoloniale – è talmente sottile che è difficile collocare i due fumetti in una delle due sfere: entrambe insistono nella definizione dei personaggi e nella scansione delle storie, e Ugo Pastore finisce per oscillare tra la classicità del pamphlet ottocentesco e il postmodernismo della riscrittura della storia dal punto di vista dell’“Altro”. Etichette associate: Puoi leggere anche: Condividi:
Quella che però appare la cartina tornasole dell’equilibrio tra approccio coloniale e postcoloniale nelle due creazioni di Manfredi è senz’altro il rapporto tra generi. Il rapporto tra Ugo Pastore e le donne copre un arco: ad una base c’è Matilde Sereni, mentre all’altra la spia britannica Jane Stanton: tutte le altre presenze femminili (Meifong e sua sorella, Sandra Terenzi) si collocano come stati intermedi in una scala emotiva. Se l’amore tormentato e non corrisposto di Matilde è la quintessenza dell’immaginario romantico ottocentesco – pensiamo ad esempio ad uno Jacopo Ortis rovesciato – la schiettezza brutale della dialettica tra Ugo e Lady Jane è molto moderna, molto più difficilmente collocabile nella modalità della letteratura d’evasione del tempo.
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