Premessa: In seguito alle numerosissime richieste (3, 4 mail al massimo!) avute in forma privata, eccomi a riproporre su questo blog le mie lezioncine di scrittura, una volta alla settimana, tutti i lunedì. Per chi non le conoscesse, non si tratta di un vero "manuale di scrittura", bensì il frutto delle mie personali esperienze di scrittura... riportate qui sul blog, in modo che altri ne possano (forse) trarre vantaggio. Questo "grande ritorno" non significa che il blog cambi argomentazioni tout court e torni ad affrontare tematiche legate alla narrativa. Tutt'altro. Le stesse lezioncine verranno riproposte in formato "ridotto all'osso"... ma aggiornate al giorno d'oggi. Una sorta di Remake... che spero possa far contenti alcuni dei miei lettori.
Credo sia sbagliato, in narrativa, parlare di regole da seguire. E' però vero che è con questa parola che vengono proposti decaloghi (alcuni riportati anche su questo blog) rivolti agli esordienti che vogliono diventare professionisti. Penso piuttosto che queste 'regole' siano in realtà delle vere e proprie filosofie. Il mondo narrativo è talmente ampio che non ci si può solidificare tutti quanti su pochi costrutti che si sono dimostrati validi in passato. Ogni scrittore dovrebbe costruire la propria filosofia narrativa o, ancora meglio, accogliere quella più adatta a ciò che sta scrivendo di volta in volta.
Lo "Show, don't Tell" è una delle filosofie più osannate nella narrativa moderna. E' pure una delle principali motivazioni per cui i critici attaccano scritti che non la utilizzano come norma. Ma non tutti la apprezzano in toto. C'è infatti chi crede che "Tell, don't show" possa funzionare meglio in alcuni ambiti, come a esempio l'ucronia, dove una variazione storica rispetto a ciò che è comunemente noto deve, in un qualche modo, essere spiegata ai lettori.
Ma, in cosa consiste lo "Show, don't Tell"?
Ebbene, è molto semplice (n.d.r. a parole). Lo scrittore deve mostrare al lettore ciò che accade nella sua storia, non deve dirlo... deve mostrarlo. Un classico esempio di storie raccontate, e non mostrate, sono le fiabe.
C'era una volta, in un paese molto lontano, un castello dove abitava un principe triste e solo. Questo principe si chiamava azzurro e passava tutte le giornate a guardare fuori dalla finestra, nella speranza di poter vedere nel viale sottostante la donzella che sarebbe poi divenuta la sua principessa.In questo esempio è chiaro che l'autore sta raccontando una vicenda e non la sta mostrando al lettore. Nel caso delle fiabe questo sistema è piuttosto valido perché solitamente il lettore si rivolge a sua volta a una terza persona, a un bambino, e di conseguenza diventa egli stesso parte della storia. E' un po' come trasformare il papà in un cantastorie... lo scrittore in questi casi gioca sporco e trasforma il papà in un personaggio della vicenda, ovvero la voce narrante. Se volessimo però scrivere la stessa vicenda usando lo "Show, don't Tell" dovremmo perdere l'effetto di trasporre il papà in voce narrante e scrivere:
Un grande castello sorgeva sulla vetta di una remota località. Alla finestra del torrione più alto si affacciava spesso il volto triste di un giovane ragazzo. Era il principe Azzurro. Solitario, passava ore e ore a guardare con occhi colmi di speranza le tante strade che si incrociavano sotto la sua dimora. Sognava di riuscire a vedere il proprio futuro amore, di scorgere la ragazza che sarebbe divenuta la sua principessa. Per questo sospirava continuamente, invano.In questo caso la storia ci mostra il castello. Avvicinandoci alla costruzione notiamo il torrione più alto, e lì c'è una finestra aperta dove il principe è affacciato. La scena non è più raccontata, è dipinta con approssimazioni successive, si va dal campo largo a uno sempre più stretto, sino al primo piano del triste principe Azzurro.
Risulta evidente la differenza tra le due strutture narrative. Il vantaggio dello "Show, don't Tell" consiste nella potenzialità di far immergere il lettore nella storia che ha tra le mani. Diventa quindi egli stesso un personaggio attivo, per quanto sia una semplice comparsa, perché può toccare con mano ciò che accade nella vicenda. E', il lettore, un testimone d'eccezione, un osservatore non visto. Tutto ciò porta a un maggior coinvolgimento nella lettura e, sempre che l'autore sia abile, in una maggiore probabilità che la storia appassioni e piaccia maggiormente. Raccontando invece la vicenda con il "Tell, don't Show", si ottiene una sorta di distacco tra vicenda e lettore. Non c'è immedesimazione, non c'è lo stesso tipo di coinvolgimento. Il lettore rimane spettatore e, per quanto una storia sarà bella, l'apprezzamento non potrà mai essere pari a quello provato in una vicenda che lo ha coinvolto direttamente.
Lo "Show, don't Tell" è però un'arma a doppio taglio. Bisogna essere veramente abili nell'utilizzare questa tecnica perché è sufficiente la seppur minima incongruenza ed ecco che tutto il castello di carte crolla, con conseguenze tragiche, e magari un giudizio finale del libro piuttosto negativo. E' perciò necessaria una padronanza del linguaggio e una sicurezza profonda nelle proprie capacità. L'emozione va provata e non descritta. Bisogna essere diretti e, anche coinvolti, mentre si scrive.
Per certi versi, tra le due filosofie che ho descritto esiste la stessa differenza esistente tra cinema e teatro. Il teatro è una rappresentazione dove lo spettatore è consapevole che tutto ciò a cui assiste viene riprodotto con artifizio e fantasia. Il cinema ha invece il desiderio di imitare la realtà e di proiettare lo spettatore dentro la pellicola (n.d.r. negl'ultimi tempi pure attraverso strumenti come il 3D). Entrambi i metodi rappresentativi hanno il loro fascino innato ma, è evidente quali siano le differenze tra i due costrutti, e quanto diversi siano gli scopi delle due filosofie.