Protagonista è Horikoshi Jirô, un giovane appassionato di aerei fin dalla nascita: se ne ripercorre la carriera dai primi anni di scuola agli incarichi prestigiosi alla Mitsubishi e oltre, dai litigi con una sorellina impertinente e affettuosissima fino all'amore della sua vita trovato in Satomi Naoko. Il tutto, con uno sguardo perennemente rivolto al cielo, alle sue nuvole, ai suoi capricciosi e improvvisi voltafaccia. Jirô rimane un ragazzo, un giovane levigato e bellissimo per l'intero film, che finisce non a caso quando non è più possibile ignorare in lui una sola ruga di dolore.
Allo stesso modo, il Giappone di Si alza il vento sembra sommerso da una perenne e indecisa primavera: ventosa e fresca, capace di regalare giornate incantevoli e violenti, quanto effimeri, nubifragi. È pur sempre una terra promessa, la terra amata, la landa dei sogni, tutta da difendere. Al contrario, la Germania che visita Jirô è fredda, molto inospitale e notturna: è una terra di minaccia, una promessa di sviluppo industriale senza pari e di progresso e insieme di disfatta umana. Per parte sua, l'Italia che porta con sé il progettista aeronautico Gianni Caproni, eroe dei sogni di Jirô, è una terra calda, incantevole e assolata, forse un po' troppo coreografica, un mondo che lievita nel vento, un immenso cielo estivo e maturo su prati senza quasi traccia di urbanizzazione.
Se la loro storia rischia talvolta di inciamapare nell'imbarazzante cortocircuito dei riferimenti letterari (dall'indispensabile La montagna incantata di Thomas Mann fino al melodramma tardoromantico), vengono in soccorso la tenerezza e la discrezione con le quali viene trattato questo amore. Non c'è qui nessun vezzo autoreferenziale, anzi: mi sembra che Miyazaki mostri di volta in volta di sapersi aprire a nuovi spunti e li affronta tutti con una grazia e una profondità che non ricordo altrove. In effetti, Si alza il vento è un film densissimo, scritto in modo meraviglioso e suggestivo, un susseguirsi di scene forti e significative. Procede, è vero, per balzi, lasciando molto "dietro le quinte", ma lo spettatore abituato all'arte dello Studio Ghibli, lo spettatore che si abbandoni alla meraviglia dei colori e dei disegni, nonché all'eterna giovinezza dei suoi eroi, non farà fatica ad orientarsi.
Una novità rilevante, invece, è rappresentata dall'importanza del sonoro: non che negli altri lungometraggi l'aspetto fosse trascurato, ma qui la soluzione di Miyazaki è molto potente. Il terremoto e la guerra hanno il suono di una voce umana, cupa, maledetta, feroce, in grado di stordire i poveri protagonisti, un po' trasognati, della nostra storia. Si ha l'impressione di una rivolta tellurica (ma stavolta senza accenti ecologici) contro la loro innocenza, contro la debolezza umana. Vero è che Jirô cammina per tutto il film con il suo inseparabile regolo calcolatore, vero è che progetta, pianifica, osserva, stende i suoi disegni nitidi e razionali, ma al fondo della sua anima, come in quella di Naoko, rimane un'ingenuità, un magma ancora plastico e commovente che si consuma nel disordine che erompe dalle viscere dell'uomo e della terra.
È per questo e altri motivi (che forse alcuni spettatori condivideranno con me) che l'appello alla vita dell'ultima scena mi sembra passibile di almeno una doppia interpretazione. Da un lato la splendida Naoko incoraggia Jirô a proseguire sulla sua strada, a soffocare il dolore, ad affrontare la morte e non rimanerne vittima; dall'altro, però, la ragazza, la donna amata da sempre, gli suggerisce in sogno di aprire gli occhi, di non cedere alla fantasia e di attraversare la realtà, di risvegliarsi da un suo ancestrale torpore. Il faut tenter de vivre ora, più che nella contemplazione, nello scatenarsi genuino degli elementi.