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Si ricomincia da qui

Da Narcyso

carte sensibili 2Incomincio il mio lavoro da qui: da un messaggio mandatomi da Fernanda Ferraresso prima delle vacanze:
“Non c’è onore a leggere e a scrivere, non c’è vetrina nemmeno nella parola, c’è ormai vuoto che galleggia su altri, vuoti costanti, che ci bruciano tutti. Come vale poco ormai la parola: per troppa che viene diffusa? Per una incapacità di schiusa? E il silenzio, se davvero lo si tocca, ha qualcosa che lo valga? Buone vacanze e non leggere Sebastiano. Butta all’aria la parola, guardane il verme che sotto la cova. Provocatoriamente. Ferni”

Cara Fernanda,
i poeti che leggono e si mettono a scrivere dei libri degli altri non lo fanno per sembrare dei critici. A loro non interessa necessariamente la valutazione estetica. Lo fanno per trovare delle corrispondenze o porsi in frizione con le corrispondenze che non trovano. I poeti che parlano dei libri degli altri sono persone che sentono, piú degli altri, la solitudine dello scrivere, a differenza dei poeti “scomparsi”, quelli che amano esistere solo nelle pagine dei loro libri. Come in uno stato di santitá, questi sono bastanti al loro silenzio; e non provano l’angoscia della solitudine perché soli non si sentono e accanto alla loro scrittura sanno vivere serenamente la vita di tutti i giorni.
Sono perfettissime isole. Noi siamo porti di mare. Noi che scriviamo degli altri siamo inquieti. Abbiamo bisogno di ri/conoscerci. Scrivere degli altri non é dunque un’operazione del tutto innocente.
C’é un dolore nel leggere i libri degli altri, un desiderio di abbandono a ogni poesia sbagliata, a ogni dubbio…. Potresti chiudere la pagina e non lo fai. C’é un dolore che ti viene dallo stato di pellegrino in cui ti trovi, di ri/conoscenza nel viso di una parola che non é la tua.
Non é bello da vedersi chi legge dei libri degli altri. Il viso é corrucciato, le mani pronte a scrivere come si inforca una zappa. Chi legge é un lanternaio che accende e spegne la lanterna e non ha tempo per il suo sonno. Ognuno prova il suo dolore.
Vanghi, rafforzi, puntelli.
Proteggi, porti alla luce, esponi.
Smascheri.
E mentre fai questo sai che devi tenerti a mente le parole di Diderot: “Vuoi fare il critico? Comincia a fare la brava persona”.
Sí, smascheri, ma solo se sei gentile, solo se sei una brava persona perché nessuno, nella gentilezza, potrá accusarti di aver agito per vendetta o per mercimonio.
Hai mai provato a distinguere, da un grumo di terra che hai portato alla luce, i semi buoni da quelli non buoni? Quelli da cui nascono i fiori da quelli da cui nasce la gramigna? E chi lo dice che la gramigna, se isolata nei paraggi, a ciuffi, non possa dare soddisfazione allo sguardo? Il contadino che per la prima volta mi falció l’erba del giardino, in montagna, un misto di fiori selvatici e tutto il resto che chiamo gramigna, mi chiese se volessi preservare gruppi di fiori e gramigna, altrimenti avrebbe dovuto falciare fiori e gramigna.
Sono cosí questi libri che leggo, e come il contadino che falcia l’erba selvatica cerco di distinguere fiori e erbaccia. Se mi arrabbiassi, sarebbe molto piú facile: strapperei tutto. E ogni tanto mi arrabbio, e improvvisamente mi dicono che sono violento. Ma hai provato a recidere con la falce? Fa male. Ci vuole molta pazienza.
Fa male scrivere degli altri, e ti avrei detto, qualche tempo fa, che é un atto necessario per la poesia. Ora ti direi piú crudemente, che é un atto necessario soprattutto a me stesso. Sono la stessa cosa, questi due gesti, nell’ottica del narciso/mondo che si specchia per conoscersi nell’altro, non per anticipare la sua morte.
Scrivo degli altri perché a volte ritrovo un frammento di specchio che si é perduto di me, e non lo trovo in me ma in qualche parola che non é mia. E non é una scoperta del tutto innocua: ci sono da distinguere gli stereotipi, gli oboli al proprio tempo, le furbizie, e poi finalmente i momenti in cui avverti la purezza della parola finalmente sola, scoperta, ingenua o folle, ma bastante a se stessa.
La poesia é fatta di una musica coatta, afona, che ti risuona dentro come una latta sfondata. Non ha veramente suono. E’ un corpo che simula il suono. La poesia é drammaticamente silenziosa. Io sono pieno della luce della vita quando ascolto l’opera, quando la musica mi trapassa e fa venire il pianto; in tutta la sua completa assurditá come genere, un’opera lirica é la cosa che mi fa piú sentire vicino all’assurditá sontuosamente drammatica e circense della vita.
La poesia, invece, mi mette in travaglio. Scrivo di poesia come se dovessi risolvere un mio problema per poi allontanarmene.
Vedi che non sono, dunque, un critico. Tranne che non risieda in qualche oscura giustificazione di tipo personale questa cosa che chiamiamo critica.
C’é un film per bambini che lo dice. Vatti a vedere “Ratatouille”, la scena in cui il critico Ego immerge la prima forchettata nella ratatouille. Forse é questo, sí, non ci avevo mica pensato…é sempre questa cosa che chiamiamo infanzia, il luogo in cui si fanno tutti i giochi, prendere o lasciare, e poi é giá troppo tardi. Poi é giá uno scontare una colpa.
Ma questa é un’altra storia e questo non é il luogo adatto per parlarne.
con affetto
Sebastiano

***

Non mi toccare

Non mi toccare parola senza carne.
Non venire con le tue scheletriche falangi

a battagliare nelle trincee della mia ignoranza.

No. Non mi lasciare addosso l’afrore dei tuoi ca’valli.
Nodo per nodo legàti alla mia coda d’asina.

(Fernanda Ferraresso, MIGRATORIE NON SONO LE VIE DEGLI UCCELLI, Il ponte del sale 2009)


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