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…siamo ..in ritardo?…dal taQQuino..di Gianluca Mercadante

Creato il 26 agosto 2011 da Gianpaolotorres

…siamo ..in ritardo?…dal taQQuino..di Gianluca Mercadante

Lorenzo Viani 1882-1936

La fiera, tre palle e un soldo 1910-12 olio su cartone cm 72×104

Qualcosa di quasi insopportabile 

(Gianluca Mercadante)

I migliori amici del camminatore sono i suoi piedi. E i bastoni, o racchette che dir si vogliano.
Bisogna sempre avere dietro le nécessaire in caso di slogature; non dimenticate a casa i vari cicatrizzanti contro le frequenti vesciche, indossate calzature adeguate ed evitate di soffermarvi su quanto accidenti costino, quando è ora di strisciare il bancomat.
La cura verso i propri piedi è la prima regola che il camminatore deve imporsi, tenendo presente che poi tutto s’impara comunque, a furia di camminare.
E i bastoni sono molto più di un semplice appoggio. Devi confidare nei tuoi bastoni, soprattutto se cammini in montagna. I bastoni vedono. Ma anche questo s’impara via via che si accumulano chilometri e dislivelli, inutile spiegarlo a parole. Tutto ciò che apprendi camminando, lo immagazzini e metabolizzi in un tempo unico. Lo facevamo da bambini – e senza neppure accorgercene: camminare, muoversi, spostarsi da un luogo all’altro, che accada dentro una stanza o fra due lontanissimi punti geografici, è semplicemente vitale. È la natura delle cose.
È così che vai nel mondo.

Al mio battesimo della roccia ero finito gattoni, la volta che con un gruppo di amici avevamo pensato di gustarci la grigliata di Ferragosto sulle alture della vicina Valsesia, più precisamente presso la baita di un ragazzo della nostra compagnia che ci aveva invitati da quelle parti. Invito assai cortese, ma nient’affatto dettagliato in merito all’impervietà dei sentieri da seguire fin lassù.
Alla faccia dell’accidentato cammino che ci apprestavamo a compiere, e delle mancate premesse sul medesimo, avevo intrappolato i piedi nelle AllStars che tanto correvano di moda in quel periodo, le racchette non sapevo cosa fossero, ed ero vestito con un paio di regolari pantaloncini a mezza gamba e una maglietta che non mi ero ancora risolto a buttare nella pattumiera. Tanto, mi ero detto, dovendo stare alla griglia, com’è sempre stata mia abitudine, lo smoking non era d’obbligo.
Sì, però almeno un cambio avrei potuto aggiungerlo, nello zaino carico della carne acquistata a valle, una volta posteggiate le auto nell’apposito spiazzale, l’ultimo avamposto civile in quella zona.
Al limitare del parcheggio, un sentiero risaliva lungo un bosco di larici secolari, le cui radici avevano nel corso del tempo esplorato il terreno circostante andando a formare una scalinata naturale. Sbucati finalmente fuori dall’infida boscaglia, e percorso un breve quanto tonificante pianoro, ci aspettava lei: la mulattiera. Una parete, vista dal basso. Saliva, saliva e saliva, la maledetta, verticale e bastante a sé stessa, sino al dislivello che, forse, avrebbe dato accesso alla sovrastante radura, dove il nostro comune amico ci aspettava, la brace pronta e la baita che mai più, mi ero giurato, avrei voluto rivedere nelle estati a venire.
Sbagliavo. La parete, intanto, non era proprio così verticale come mi era parsa. Un sentiero c’era, per carità, ma in confronto l’appena precedente camminata nel bosco era stata una pattinata su ghiaccio. Non un centimetro quadrato di erbaccia secca: roccia, su roccia, su roccia, su pietra, su pietrisco che le ostie di gomma sotto le mie addolorate piante attutivano come se ci stessi salterellando sopra a piedi nudi.
Quanto alla radura che ingenuamente sospettavo di trovare sopra a quella schifosa pietraia, esisteva come esistono i miraggi. Per un istante sono certo di averla addirittura scorta, la radura e il suo carico di promesse. Per un istante la baita, la brace odorosa e fumante, l’amico tutto intento ad alimentarla, erano sul serio apparsi. Invece non c’era niente.
O meglio: c’era un bivio. Una freccia di legno indicava un punto di avvistamento per le marmotte, l’altra, all’opposto, recava inciso il nome della dimora estiva del sedicente amico che ci aveva proposto questa fantastica Via Crucis versione new age.
Sarà stato l’aspetto prevalentemente erboso del sentiero che da lì prendeva a salire ripidissimo, o saranno stati i miei piedi a implorare pietà, avevo atteso che il resto della batteria cominciasse a inerpicarsi. Quando anche l’ultimo della fila era a sua volta sparito dietro la non distante curva, mi ero messo a quattro zampe. E avevo inventato l’arrampicata alla pecorina.
Procedevo a forza di mani e ginocchia, ignorando il fastidio della terra umida che mi s’infilava sotto le unghie, o l’eventualità di procurarmi numerose sbucciature, o chissà quali traumi a entrambe le rotule. L’obiettivo finale della missione era prioritario: salire alla baita, rifilare un cazzotto sul grugno al gentile ospite – nonché al resto del gruppo, che avevo perso di vista e vigliacco se indietro ne fosse ridisceso almeno uno – e contattare un elisoccorso perché venisse a recuperarci tutti quanti.
Preda della follia omicida, pressato al suolo dal peso della carne nello zaino, mi ero accorto dei quattro scarponi da trekking davanti al mio naso giusto un paio di secondi prima di andarci a sbattere. Non avevo osato sollevare subito il capo, ma siccome era abbastanza chiaro che gli scarponi se ne stavano immobili per colpa mia, sarebbe stato il caso di farlo alla svelta.
Centimetro per centimetro ero passato dagli scarponi alle caviglie, dalle caviglie ai calzoncini, dai calzoncini alle mani, strette all’impugnatura delle racchette, e via andare fino alle facce. Totale assenza di affanno, zero segni di fatica, nessuna traccia di sudore. Eppure, a occhio e croce, la somma delle loro età non avrebbe superato di molto quella degli anni anagrafici dei componenti della mia dispersa spedizione, me compreso.
Due androidi modello North Walking, ecco cos’erano, ecco l’unica spiegazione plausibile al fenomeno. Perfino a posteriori viene da chiedersi quali emozioni li abbiano abitati nell’imbattersi strada facendo in un essere umano carponi nell’erba. Un potenziale nipote, fossero stati della sua specie. Ma mica erano umani, no?…
- Possiamo aiutarla? – Aveva a un certo punto detto la donna.
Un timbro verosimile. Nulla di cui stupirsi: dopo “Blade Runner”, la ricerca nel campo della robotica ha svoltato alla grande.
- Manca molto alla baita? –
- Quale? – Avevano ribattuto in coro.
Alla “q” volevo già morire.
- Noi veniamo dal rifugio… – Si era sentita in dovere di precisare la donna – …e ne abbiamo incontrate parecchie, di baite. –
- Parecchie… non esageriamo. Cinque o sei. – Era intervenuto lui.
Un altro amico di fondamentale importanza per il camminatore è il suo cervello: se una parte deve restare vigile, pena incidenti che possono rivelarsi gravi, una parte può tentare di estraniarsi, onde lenire un minimo la fatica fisica. Ognuno ha i suoi sistemi: chi canticchia silenziosamente svariati ritornelli in loop, chi prega in loop, chi pensa ai fatti suoi in loop, chi medita il divorzio in loop. Di certo, non è contemplabile restare coinvolti in discussioni che rischiano di sovraccaricare lo stress della salita, nossignori.
Avevo perciò aggirato la coppia di umanoidi senza contribuire oltre al dialogo, sperando solo che il mio esausto rush finale fosse finale sul serio.
Difficile a dirsi, non meno difficile a farsi, soprattutto quando qualcuno, dall’alto del suo meritato defaticamento, t’informa del fatto che la destinazione potrebbe non essere così prossima come ritenevi.
Per fortuna mia, di lì a poco, guidato dall’acre profumo della carbonella sempre più percettibile, ero giunto nella famosa radura, accolto dagli applausi e dalle incitazioni dell’allegra combriccola già accampatasi. Ero così devastato, e senza un briciolo di energie, da tralasciare l’intento di malmenarli uno a uno.
In mio aiuto era accorso solo lui, il padrone di casa.
- Sei sudato da far schifo… – Aveva avuto il buon cuore di notare, mentre tentavo grazie al suo sostegno fisico di tornare in posizione eretta – …hai un cambio? –
Avevo scosso la testa.
- Vai a fare la doccia, ti presto qualcosa io. Una maglietta pulita delle mie dovrebbe starti, per i calzoncini pazienza. –
Una doccia?! E chi ce la faceva?!!
La ragione tuttavia stava dalla parte sua: facevo impressione, sembravo anzi appena uscito da dove, infine, mi ero convinto fosse saggio entrare. Alla fine mi sentivo rinato, non sarei più voluto venir via da sotto il getto, ma la griglia esigeva il suo cocinero, dopo tutta quella scarpinata. Era scritto nel destino che mi decidessi a chiudere il rubinetto dell’acqua e tornassi là fuori.
Spalancata la porta di legno del bagno, che dava immediatamente sull’esterno, il respiro mi si era daccapo mozzato in gola. Non perché l’aria difettasse di eccessiva purezza, per i miei polmoni da città. Non perché la stanchezza fosse tornata alla carica.
Stavo solamente ammirando l’unico elemento di quella mattinata sfuggito alla mia percezione razionale: la montagna.
Lo spettacolo che davanti ai miei occhi finalmente si srotolava, ti prendeva qui, nello stomaco. Tanta bellezza tutta assieme era qualcosa di quasi insopportabile. E dire che ci eravamo passati proprio in mezzo, a quella bellezza, eppure la rabbia con cui avevo affrontato la sfida di arrivare su aveva impedito allo sguardo di trasmettermi il piacere di una tale vista. Una vista così sensazionale da neutralizzare in un attimo i residui della spossatezza che la doccia, per quanto miracolosa sia in sé, non aveva potuto smaltire per intero.

Oggi lo sono diventato davvero, un camminatore di montagna. Passeggiate simili me le magno, come si suol dire, e devo allo scenario di quel giorno il motivo per cui ho voluto rivedere certi miei preconcetti. Non sarei comunque mai più tornato alla baita del nostro amico, né avrei rimesso piede una seconda volta dentro quella valle, dentro quei sentieri, ma solo perché non se n’è ripresentata l’occasione – e perché, diciamocelo, il contratto decennale d’affitto della baita sarebbe scaduto quell’anno, per poi non venire rinnovato.
Peccato. Alla fine della giornata, si era deciso di seppellire una bottiglia di mirto che avremmo vuotato la successiva estate. Una sorta di rito, che ha avuto un inizio ma non un compimento.
Mi piace pensare che i nuovi arrivati, dopo di noi, o consumati camminatori come la coppia di anziani che avevo incrociato io, l’abbiano trovato, il nostro piccolo tesoro. Non sarà stato un mirto eccezionale, forse, l’avevamo acquistato al supermercato tanto per, nessuno di noi immaginava cosa ci avremmo fatto, a parte berlo. Però, era un tesoro, sì. Il nostro tesoro. Che, magari, ci aspetta tuttora.
Scusaci tanto se non siamo arrivati puntuali all’appuntamento, mirto caro, è che purtroppo, mentre tu resti in sintesi una bottiglia, gli altri hanno chi più chi meno un’esistenza terrena cui badare. E se tu di terra te ne intendi, visto che ci sei stato sotto, chi ci vive sopra, credimi, ce l’ha dura.
È come la montagna, la vita. È selettiva. Non tutti accedono alla vetta, non tutti onorano le promesse, non tutti tornano a dissotterrare una bottiglia di mirto da quattro soldi. Spesso capita che si vada al supermercato a comprarne un’altra, di bottiglia, magari approfittando di un’offerta promozionale.
La montagna non fa sconti, non propone offerte. Oltre ai piedi e i bastoni e il cervello, la montagna è in assoluto la miglior amica del camminatore, per questo è onesta.
La montagna ti rispetta e da te, in cambio, esige soltanto che tu faccia lo stesso, sennò, sappilo in anticipo: vincerà lei.
Regola che dovremmo mandare a mente, anziché a monte. Soprattutto quando i nostri piedi camminano in piano, o non camminano neppure, e siamo in coda e siamo nervosi e stiamo anche oggi maturando troppi ritardi, sulla tabella di marcia dell’ennesima salita.

Pubblicato in Appunti

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