Noi siamo fatti di monadi, e le monadi non hanno finestre...
Tante strade, una sola meta
Leibniz appartiene a quella schiera di pensatori secenteschi che, pur essendo geniali, hanno avuto nondimeno questo piccolo difetto: partivano tutti da una stessa premessa, ovverosia l'esistenza di Dio. Questa premessa era già implicita nelle loro dimostrazioni, che così di fatto non dimostravano nulla: in questa sorta di tautologia del pensiero, il predicato era già tutto contenuto nel soggetto. L'esplorazione insomma non era affatto libera, non c'era alcuna terra da scoprire perché la meta la si conosceva già: la strada stessa era tracciata appositamente perché portasse a quel punto preciso d'arrivo. Si era in un secolo, il Seicento, di grandi rivoluzioni tecnologiche e scientifiche - più scientifiche che tecnologiche -, ma era anche un secolo di monarchie assolute e strapotere della Chiesa cattolica che, nonostante la bufera secessionista delle varie Riforme e delle guerre - apparentemente - di religione, manteneva in ogni caso uno stretto controllo sull’attività intellettuale in generale e soprattutto filosofico-speculativa. Ora, questi pensatori che volevano fondare la loro filosofia su delle basi matematico-scientifiche e che guardavano al meccanicismo come a una nuova metafisica razionale, in realtà se la rischiavano grossa. Ecco perché allora, per appianare le cose e far rientrare i sospetti, bisognava che l’obiettivo finale di tutti i loro sistemi fosse per forza l’esistenza di Dio. Il che li portò quasi sempre a delle incoerenze di fondo e a dei veri e propri ‘spropositi intellettivi’ che erano, nella maggioranza dei casi, un vero e proprio scotto da pagare per diffondere le loro idee e per rimanere incolumi. Ed è per questo che il valore effettivo del loro pensiero non si riscontra come in altri nelle loro conclusioni, ma nella strada percorsa per arrivare a quelle.
L'unità dell'universo? Frantumata in un gioco di specchi...
"L'universo è un insieme infinito di specchi..."
Nel pensiero di Leibniz, in particolare, ci sono due intuizioni che vale la pena riesaminare e che sono riconducibili alla famosa idea di monade come unità di sostanza percettiva e attiva, fonte essa stessa di conoscenza e di pensiero. Alla monade il filosofo ci era arrivato a poco a poco, grazie al calcolo infinitesimale di cui era stato l’inventore e che non gli permetteva di considerare la res extensa come sostanza fatta e finita, proprio per via della sua scomponibilità all’infinito. Sostanza non poteva nemmeno essere l’atomo, in quanto principio materiale e come tale privo di forze intrinseche e pertanto immune per natura al movimento: il che era come dire una contraddizione in termini. Con la monade invece aveva recuperato l’atomismo di Democrito e il meccanicismo che imperava a quel tempo, ma allo stesso tempo aveva salvato la presenza di Dio dando alle monadi stesse una sostanza spirituale, e risolvendo a favore di quest'ultima l’annoso problema del rapporto tra res cogitansed extensa lasciato intonso da Cartesio. L’estensione è solamente un accidente, un’espressione imperfetta della spiritualità monadica. Ma la monade - sarebbe a dire il nucleo, la base infinitesimale dell’universo, l’unità indivisibile, la cellula prima del mondo -, pur essendo un elemento che si aggrega a molti altri della sua specie come una pietra su un’altra pietra per formare un alto muro, è una realtà isolata e non-comunicante. Per dirla con le parole di Leibniz, 'le monadi non hanno finestre'.Un'inguaribile solitudine...
Il meccanicismo sosteneva che l'intero universo procedesse
da solo in un concatenamento di cause e di effetti, e che
Dio avesse l'avesse solo regolato inizialmente. Per Leibniz
invece il meccanismo non funziona per contatto: le monadi
non si toccano, e gli ingranaggi in questo caso funzionano
grazie a un perfetto coordinamento di ognuno di essi,
avviato ovviamente da Dio: è la teoria dell'armonia
prestabilita
Quando il logos si spezza...
René Magritte, La chiave dei campi, 1936
Ma come si forma la conoscenza? Come facciamo a percepire qualche cosa che appartiene all’esterno, se la monade non ha finestre? Cosa facciamo a produrre una conoscenza che possa dirsi oggettiva, e che valga più o meno per tutti? La conoscenza per una monade non è data da un qualcosa di estraneo che agisce sui sensi - tutto infatti avviene all’interno -, ma dal suo essere integrata nel sistema-universo. La sua fitta rete di relazioni - non di causa-effetto, abbiamo visto, ma di puro legame e vicinanza - le permette di riflettere dal suo interno - un’altra volta la metafora dello specchio! -, nella sua ‘intelaiatura’ interna che la predispone a quel determinato tipo di relazione che è già in atto e in cui essa stessa da sempre si trova, la composizione dell’intero universo. Ora, ci sono due tipi di conoscenza. Il primo tipo riguarda tutte le monadi, ed ha a che fare con la percezione propriamente detta: si tratta appunto di quella conoscenza interiore o ‘riflessa’ che si trova già sempre inscritta nelle strutture della monade stessa. È una 'conoscenza involontaria’, se così possiamo dire, una conoscenza cioè di cui non abbiamo istantaneamente consapevolezza. L’altro tipo di conoscenza, invece, appartiene alle monadi più ‘sofisticate’ e con un più alto grado di spiritualità, ed ha a che vedere con l’autocoscienza vera e propria, con il sapere con-sapevole, quello che sperimentiamo e che appunto sappiamo di avere. Il suo nome è appetizione, ed è quel tipo di conoscenza - varrebbe a dire di pensiero - che la filosofia aveva da sempre considerato come l'unica effettivamente possibile. Invece per Leibniz - e qui sta appunto l’intuizione più felice del filosofo tedesco, che precede di qualche secolo la filosofia della crisi e le teorie psicanalitiche di Freud - anche la percezione è pensiero. Il filosofo sta dicendo - e forse neppure lui era consapevole della reale portata delle sue affermazioni - che nella nostra mente esiste anche un pensiero inconscio, nascosto, che possediamo ma di cui non conosciamo nulla, che in qualche modo spezza l’unità quasi millenaria del logos e si prepara a superare quel dualismo anima/corpo che non può avere in nessun modo a che fare con la realtà diveniente e con la nostra dimensione temporale e transitoria di creature passeggere ed esposte alla morte.