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Siamo nati per soffrire.

Creato il 03 settembre 2011 da Enricobo2

Sì, ci sono momenti in cui è davvero difficile prendere la decisione; anche perché sai cosa ti aspetta e vuoi allontanare da te l’amaro calice. Ma prima o poi bisogna dimostrarsi uomo ed andare in fondo al proprio destino. Eppure stavi lì, tranquillo, coricato o tuttalpiù seduto senza che nessuno ti sollecitasse, senza che ci fossero obblighi di alcun genere; potevi continuare così per un tempo indefinito. In fondo cosa è il tempo durante la meditazione? Una variabile trascurabile dell’esistenza, un aspetto privo di valore da non considerare. Allora, avevi appena finito di compitare un kakuro; avevi sbagliato tanto per cambiare, ma nulla turbava comunque la tua serenità. Chi se ne frega se il kakuro non viene, è un altro non essere che dà sfogo ai contatti delle sinapsi, ma il terzo occhio della mente intanto vaga lontano, concentrato su un punto fisso, dove all’infinito si incontrano le linee dell’orizzonte. Due azzurri diversi ma non ridondanti, due aspetti del fuori di te che si assimilano, si confondono. Forse è il sole che picchia troppo forte. Ecco allora che, come spinto da una forza estranea e maligna al tempo stesso, la tua massa corporea (notevole peraltro) si leva come per magia, frutto di meditazione tantrica o di levitazione magnetica e scivola lenta ma decisa verso il suo varo naturale. La ripa ciottolosa agevola la discesa verso la superficie liquida in lieve movimento. E’ un attimo. Quello che dovrebbe essere il naturale abbandono in un desiderato liquido amniotico in cui proseguire l’ottundimento dei sensi si rivela per quello che è. Un terrificante luogo di supplizi. Già il ciotolume infame ha offeso la tenera pianta delle estremità stanche, ma si pensava che la sofferenza sarebbe stato presto lenita dalla legge di Archimede, non appena a varo concluso, il peso avvertito del corpo fosse stato sminuito dalla spinta verso l’alto. Purtroppo si erano fatti i conti senza l’oste. Il primo contatto con la superficie liquida mostra immediatamente quale sarà la morte di cui si dovrà morire. Una temperatura artica, assolutamente inopportuna per questi luoghi e per queste ore, ha trasformato l’onda che si frange sulla battigia in uno strumento di tortura. I piedi sono ormai dentro, non si può recedere dal cimento e già mille aghi di gelo penetrano la tenera cute; man mano  che si procede più avanti, il tormento sale impietoso lungo i polpacci, raggiunge le cosce ben  tornite (così diceva Omero) e devi prepararti ad affrontare la prova più dura. Una sosta si impone, per raccogliere le forze e tentare una resistenza. Ma sta per arrivare il momento più duro, quando lo sciabordìo dell’onda tenta maligna di bagnare quel che non vorresti mai. Il costumino è ben poca barriera al gelido abbraccio a cui ti appresti. Tenti di salvare il salvabile e mentre l’onda arriva impietosa, ti rizzi sulla punta dei piedi o alla peggio tenti un piccolo saltello per evitare l’inevitabile, ma poi, eccone una più violenta e cattiva e una torbida mano di ghiaccio ti afferra e ti strizza, non ti lascia più, ormai ne sei preda posseduta e ti trascina nel gorgo. Ancora un fiato, un’ultima resistenza mentre sale il livello circondandoti il molle ventre che solo chiederebbe calde carezze e ti lasci andare vinto definitivamente mentre l’acqua ormai ti arriva alla pappagorgia. Poi come per magia fisica o forse termodinamica la sensazione di gelo si attenua, gli aghi ghiacciati si ritraggono, gli iceberg puntuti altro non sono che colpi di onda quasi tiepida e piacevole. Che goduria il bagno, quasi quasi sto a mollo fino all’ora di pranzo!

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