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Il mondo nasce, Omero canta. È l’uccello di questa aurora
Omero, dunque. O meglio, l’uomo che abbiamo imparato a chiamare Omero. L’antico greco che ci ha regalato i poemi con cui inizia la storia della nostra letteratura e forse della nostra bellezza. Il poeta cieco, che non aveva occhi per guardare, ma che proprio per questo sapeva guardare più lontano di chiunque altro e staccare dal suo silenzio parole che risuonavano a lungo nel cuore degli uomini.
Tutto questo è Omero: la grandezza dei versi dell’Iliade e dell’Odissea e, nel ricordo di molti di noi, il busto di un anziano dall’espressione saggia e solenne, e poi magari le traduzioni e gli studi dei tempi di scuola.
Penso spesso a lui, credo che si sia in diversi a farlo. Eppure, cosa si sa davvero di Omero?
Già nell’antichità si erano moltiplicate le biografie, le vite immaginarie, le leggende. E già allora non si contavano le città che si contendevano il vanto di avergli dato i natali, da Atene a Rodi, da Argo a Chio e Smirne. Città, per inciso, quasi tutte dell’Asia Minore, tanto per destarci il sospetto che la nostra poesia in effetti sia arrivata da lontano, dall’Oriente.
Qualcuno assicurava che Omero era nato pochi anni dopo la guerra di Troia, altri che era nato parecchio dopo. Anche sul significato del suo nome ci si accapigliava: discendeva da una parola con cui i greci si riferivano ai non vedenti o dalla parola che indicava, più misteriosamente, un ostaggio?
Ce n’è voluta per iniziare a convincersi che forse Omero non è mai esistito. Anzi, che non è mai esistito perché in realtà di Omero ce ne sono stati centinaia, migliaia.
Infiniti Omero prima di Omero che hanno raccontato di Achille e di Ettore, del re Agamennone e dell’astuto Ulisse. Infiniti poeti che hanno cantato nelle feste e nei banchetti, hanno improvvisato versi che poi sono passati di bocca in bocca, hanno tramandato la memoria delle gesta, delle imprese e delle miserie dei loro eroi.
Così la più grande poesia della nostra letteratura è nata dalla parola leggera, imprendibile, evanescente di tanti poeti senza volto e senza nome.
Ed è bello pensare a tutto questo e poi pensare ai nostri nonni e ai nostri bisnonni, alla nostra Toscana contadina dove si passava le sera a veglia alzandosi in piedi per una rima, per un’ottava improvvisata da chi non sapeva né leggere né scrivere. Credo che sia per questo che qualche tempo fa mi è venuto di scrivere Beatrice: un modo per provare a saldare qualche debito di gratitudine.
È bello pensare a tutto questo, perché permette a ognuno di noi di ritrovare il dono della parola. Perché aiuta ognuno di noi a sentirsi un po’ Omero.
Pensate, ognuno di noi come il grande poeta cieco.
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