Anna Lombroso per il Simplicissimus
Il bel Mediterraneo, quello dei commerci, delle grandi civiltà, culla della democrazia, è ridotto a cimitero marino. È successo nei pressi dell’isola dei Conigli, recuperati 90 corpi, tra questi una donna incinta e due bambini. Sull’imbarcazione, che si è incendiata e poi rovesciata, oltre 500 profughi. E all’alba salvati 117 migranti siriani nei pressi di Siracusa.
Preferisco alla carità la “compassione”, passione e pena condivise e preferisco la solidarietà alla pietas. Non sono credente, anche se ho una incrollabile fede nella ragione, ma mi piace credere che avesse ragione Alex Langer quando disse che bisogna averne almeno una di fede, quella di piantare la carità nella politica. Per farle metter radici, farla germogliare e crescere in modo che la politica ridiventi civile, riacquisti il bene della responsabilità nei confronti del bene comune, e quello della solidarietà nei confronti degli uomini, degli altri da noi. Ce n’è qualcuno come lui, che professa la solidarietà come una vocazione: non la carità pelosa delle pie dame o del volontariato padano che con una mano toglieva diritti e con l’altra elargiva filantropia da scaricare dalle tasse, o quella dei professionisti instancabili del terzo settore caro al potere, dinamicamente e mondanamente attivi con eleganti e giulive fondazioni o associazioni molto illuminate da riflettori mediatici. E nemmeno quella di certa brava gente, benpensanti e pii, che fa opere buone ma non regolarizza e che preferisce curare piaghe estranee all’assistenza ai propri genitori, soccorrere indigeni anche poco indigenti all’accoglienza di disperati forestieri, evadere quelle tasse che dovrebbero partecipare del welfare-
Si è una idea alta e bella quella di Langer, peccato che il buon seme della solidarietà nella politica non abbia attecchito né germogliato. Nelle politiche europee, dedite a sopraccigliuti moniti verso paesi poco accoglienti, a sanzioni contro popoli poco ospitali, mentre quegli stessi popoli, li riduce alla stessa disperazione di chi arriva, li condanna alla stessa disperata emigrazione. Quella nazionale, di un Paese che ripropone a tanti anni di distanza le stesse leggi razziali che l’hanno infangata, che attua il respingimento come sistema di governo, stringendo al tempo stesso opache alleanze con dittatori e tiranni, vendendo armi a chi paga di più, manomettendo l’ambiente e provocando altri esodi biblici per sfuggire a carestie e catastrofi innaturali.
Non ha attecchito, se nuove povertà sconfinano in antiche miserie, se si allarga l’esercito di poveri pronti alla schiavitù o al viaggio più disperato, se le misure di governi e stati inducono inimicizia, diffidenza e paura, se il livore di chi ha perduto la sicurezza si accanisce anche contro chi non l’ha mai avuta, se viene provocato oblio di come eravamo per farci odiare chi ora è come noi fummo, stranieri, umiliati, corpi nudi esposti all’avvilimento e al sopruso, senza diritti e senza identità. E se provocano anche l’incapacità a vedere che così torneremo forse ad essere.
Non ci sono solo le illusorie grandi navi che sfiorano minacciandola, la nostra bellezza. I viaggi della nostra contemporaneità, sono viaggi di sopravvivenza: fuori dalle Colonne d’Ercole, la loro metafora è la Zattera della Medusa, con scafisti infami o traghettatori pietosi, coi suo naufraghi sbattuti dalla tempesta e rifiutati dai porti sicuri. E quando per buona sorte arrivano, arrivano per essere respinti ricacciati ripudiati negati nascosti recintati, corpi estranei sgraditi odiati che reclamano sporcano minacciano col semplice urlo silenzioso della loro fame e della loro disperazione, cui togliere lacci, cinte, speranza, dignità e libertà. Sono arrivati qui, a volte di passaggio, persuasi come siamo stati noi che il capitalismo e la crudeltà dello sfruttamento fossero un male inevitabile, se volevano come noi pane e companatico, la proprietà di oggetti luccicanti, se aspiravano a una vita tranquilla e protetta magari da vigilantes e torrette fornite di sofisticate telecamere, se speravano che anche i loro figli come i nostri figli avessero più agi e garanzie di noi.
E a noi hanno fatto credere anche che la disuguaglianza fosse un problema dei disuguali, quelli appunto che in ondate numerose minacciavano il nostro pingue squilibrato equilibrio e le nostre già povere convinzioni. Ci hanno fatto credere che fosse fisiologico, lecito, accettabile e addirittura morale, l’autodifesa, l’egoismo proprio della vocazione predatoria dello sviluppo umano, questo nostro sviluppo regressivo e crudele. Ci hanno fatto credere che per trarne i meritati vantaggi sia necessario l’abbrutimento della solidarietà e dell’umanità, perché questo sarebbe l’unico modo di stare sulla Terra dalla parte giusta, anche se è iniqua, e chi se ne importa se l’abisso che separa ricchi e poveri è sempre più profondo, se sono sempre più numerosi e arrabbiati quelli sommersi.
Non è più così, siamo nella stessa zattera ormai, qualcuno appena appena più vicino alla riva. Siamo tutti potenzialmente Fleba il fenicio, morto da quindici giorni, dimentico del grido dei gabbiani, e del flutto profondo del mare e del guadagno e della perdita.