Nella sua Amaca di ieri, Michele Serra si congratula con gli italiani perché, in questo momento di grande concitazione, sembrano aver ritrovato lo spirito del dialogo, senza la violenza. Ho l’impressione, però, che Michele Serra confonda il dialogo positivo e costruttivo, quello che può dirsi politico nel senso più alto del termine, che non disdegna anche la violenza pur di potersi affermare, con lo scambio di opinioni. Sì, quello da talk show alla Bruno Vespa, Santoro, Floris, un continuo chiacchiericcio tra finti avversari della contrapposizione ad arte, una Domenica Live nobilitata dall’assenza della D’Urso, come se bastasse togliere la padrona di casa per sentirsi migliori.
Cresciuti negli ultimi trent’anni assistendo alla pantomima dei salotti televisivi, e in questo Berlusconi c’entra poco, o almeno solo in parte, ci ritroviamo ora a pensare e a credere che, mentre facciamo fluire i dati dinanzi allo schermo televisivo, del PC, di un tablet, o inviamo messaggi di 140 caratteri su Twitter o postiamo la nostra indignazione su Facebook, stiamo esprimendo una qualche forma di partecipazione attiva alla voglia di cambiamento, confermando quanto siamo cresciuti rispetto a quando si picchiava duro e ci si ammazzava. Una domanda, però, sorge: quanta incidenza può avere un tweet? Quanto un post su Facebook, o uno scambio di email possono esprimere un senso di concreta partecipazione? Temo che ancora una volta si stia confondendo la rete con la piazza, allo stesso modo di come Grillo confonde la diffusione da streaming (solo per alcuni, soprattutto quando sono gli altri) con la trasparenza. E temo che Serra abbia confuso l’interazione virtuale con la discussione democratica che ammette, nel senso che la contempla pur senza doverla necessariamente giustificare, la violenza. Non sempre la pacificazione è segno di crescita, a volte può essere solo assuefazione all’ovvio.
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