Magazine Cultura
Poggio le mani sui lastricati in ardesia, i miei sedili artigianali, voglio fottermi la frescura ficcatasi nelle fessure buie della pietra. Il caldo s’alza dai capannoni bruciati e le nuvole diventano nere. Io sono nato sotto quelle nuvole nere; ci mangio come i cani quando divorano le carcasse dei buoi nei rettilinei verso Gela, ci mangio pane e uovo, uovo e ciliegini spaccati in due, azzanno anche le ossa del pollo e manco mi scanto, non mi caco nei calzoni. Questo caldo fuori stagione. Le scarpe, rovinate, me le sento avvampare, sembrano zone carsiche erose dal fuoco, nei buchi entrano lucertole minuscole, alzo il piede solo per calpestarle. In Piazza Dante, a Butera, d’inverno, le putìe sono serrate, mentre i bastardi assettati si nascondono nelle loro cucine e i termosifoni tossiscono mosche. Le ali rimaste s’attaccano tra le viuzze, il fieto del troppo friddu si mischia agli scarti del macellaio Sciandrù e le bestemmie, che rimbombano dai soggiorni aperti lungo i vicoli, si sciolgono negli orecchi quando mi calo con la testa dentro l’acqua fredda della fontana.
Solo. Io sono da solo, dentro la piazza.
Palpare la morte di un cristiano non m’aggrada, preferisco gustarmela, succhiare fino al midollo il folclore della dipartita siciliana. Quando s’aprono le case, per mostrare il cadavere con la sua pelle screpolata, livida, come di pollo crudo, mi introduco nella camera ardente casalinga, ad odorare quel profumo di gesso friscu. Gli insetti si inerpicano sul ventaglio delle comari, sfilettano impudichi la trama di raso nero e poi si posano sulla bara: legno bello lucidu, di modo che scintilli la cassa dò muortu. Mi brillano gli occhi a ogni ricorrenza, mi brilla l’anima perché io non sono crepato. Le palpebre delle vecchie che si prefigurano la stessa sorte, l’ambiente, che mi porta a benedire il respiro lesto dei miei anni, le conversazioni sottovoce dei presenti:
“Come minchia è morto?!”“Come se l’è preso u Signuri?”
“Stava in grazia di Dio?”
“Era un disonesto, sa pigghià ìntra u culu”.
“Era a merda, a merda della sua famigghia”.
Mi interesso agli appellativi, mi inorgoglisce discutere del poveretto, in silenzio, mentre la puzza dei fiori e il rancido sole scolorito sui mobili puntella la comicità dello scenario.
Aspetto il buio.
I completi del “cu murìu”, spacchiusi, scintillanti; le scarpe quasi leccate da una vacca incinta che s’alluminano a contatto con i riflessi del pomeriggio assolato, mentre c’è anche chi sputa sul palmo della mano per rizzittare il capello del morto per poi stuiarsi sui pantaloni dello stesso. Alcuni benedicono, altri condannano e in mezzo a quella scena i corpi, scorticati dai ventilatori, respirano a malapena, con i pantaloni appiccicati alla carne mentre quella stessa carne, che nel poveretto s’era rattrappita per volontà divina, non può riesumarsi nemmeno di fronte all’acqua benedetta, conservata nelle boccette a forma della Madre di Cristo. Nuddu poteva fare il miracolo, poteva succhiare la ciolla dura che ha il sole siciliano! “Cu mori, mori”, chi è morto è morto: non c’è minchia, fiamma, Spirito Santo o ampolle sacre che tengano. Me l’ha sempre spiato solo Zù Gugliemo, l’unico che ha capito cosa fosse u fuocu. Nelle mani buteresi degli Spiteri, i becchini, nelle loro mani da muratori golosi di fosse da scavare, sta il corpo del dipartito. Il rito è sempre il medesimo. La Pilato Mercedes, i crisantemi stagionati colmi di vespe, il loro “ora ca muriu ni faciemmu i sordi”, il percettibile terremoto quando l’auto percorre la scala reale che allaccia Butera Bassa a Butera Alta, affinché i morti raggiungano il cimitero; il cuore secco dei parenti, come piante della macchia tranciate dallo scirocco ossidrico, i Gloria al Padre dentro l’abitacolo della macchina, e non c’è il mare, per i morti, e i parenti dei morti non possono vedere il mare, ché la sepoltura finale non ha quell’orizzonte limpido, e Butera è stinnicchiata in collina.
Io degli Spiteri amo la precisione, la coerenza nel timbrare, con un bollo di cera rossa, la caviglia del muortu, il loro farne una pecora numerata, una di quelle pecore strammate che incontro quando raggiungo Gela. Scappano da una roccia, le bestiole, lasciano pagliericcio fituso e fumoso, scattano dai burroni quasi calciati via dal culo storto del diavulu, insudiciano la provinciale. Altre volte si fanno investire, crepano lasciando la lingua buttata sui denti, penzolante e frisca. Te ne accorgi di notte, mentre viaggi, quando la luna è china e dentro c’ha il futuro degli animali perché deve fartelo vedere.
Per gli Spiteri i morti sono come gli animali: devono essere sacrificati, congelati, mostrati al miglior sguardo sofferto, offerente, e compressi nel proprio nuovo appartamento. Sono le regole, le regole per avere la minchia dura, per differenziare una morte dall’altra, tecnicamente, per imparare ad averla, per fare il becchino, e per coricarsi senza il rischio di scantarsi della propria faccia o del sempiterno aroma di lilium che avvolge anche le onde del Mediterraneo, dove non riusciresti a distinguere il buio del fondale con il buio del dormire! C’avevo empatia, c’avevo distacco partecipato, provavo compassione e versavo lacrime come un copertone che finge di forarsi sotto il vento africano, quello che t’ammacca senza torcerti. I copertoni di gomma nera, abbandonati ai lati della via, poco prima del sentiero per il cimitero: i copertoni che paiono introdurre “il posto” dei loculi costruiti per la decomposizione dei vutrìsi scaricati da dio: il cimitero, la discarica della morte.
Lassù, c’abitava Concetta, mia nonna.
Piccola, una nana lavandaia con l’amore per le uova, le frittate, cattolica sino alla stampa nera sul dito ciccione, dove si incarcava il rosario ad anello. Era un minuscolo cagnaccio, col grasso e la pancia piena di latte, un mammifero carico di figli, una cagnola che si trascina verso il Belvedere per lasciarsi cadere all’ombra del castello normanno.
Di fronte alla sua casa: il castello arabo-normanno, una villa secentesca, un orfanotrofio e un’altra casa colonica, sempre chiusa. Quattro esemplari di solitudine siciliana, quattro catacombe per sotterrare la propria esistenza mentre tutti i cristi a quattro zampe ficcano tra i cespugli incucchiati, e le gazze si affrettano a caricarsi il mangiare che il sole piano piano risucchia. I cardellini, invece, Concetta li faceva ingrassare. “Volatili a forma di baccello di cìciru verde”, diceva. Se n’è andata, Concetta. Morta, con sdillìnio, come frittura di pepi saraceni. C’era il tramonto a Butera, quella volta, mi hanno raccontato. Quel tramonto che s’appiattisce tra le case in una sorta di milza pressata dentro due lembi rozzi di pane cattivo. Oleoso. Freddo. Mia madre Angelina s’era recata, per staccare la corrente, in Via Archimede, dove stava la casa che condivideva con la madre. Aveva scoperchiato il vaso di ceramica, al centro del tavolo della cucina, dove da una vita nonna Concetta conservava i nucatoli, i biscotti di Butera. Fu solo a quel punto che Angelina, una volta raggiunto il salotto, fece la scoperta del corpo della madre. Per terra, con gli occhi spirdati, un uccellino scuro che non riusciva ad uscire dalla stanza.
“Perché te ne sei andata, nonnì?”
“Perché non mi hai lasciato dire le ultime cose?”
Mi ha lasciato negro, a Butera, come la solitudine di un arabo sotto il castello, pronto per essere sacrificato evangelicamente, nella tua dimora, a mangiare biscotti. E quello che mi resta, ora, è raccontare la mia storia. Come sono arrivato fino a qui».
Lo scuruOrazio Labbate - (Ed. Tunué)
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