Alzi la mano chi si è annoiato alla visione di un film di Woody Allen; l’avete alzata?! Beh, ora potete abbassarla e vergognarvi! Vi concedo un’attenuante: si sa, il cinema introspettivo e psico-sociopatico non può certo attirare tutti incondizionatamente; c’è chi, dei deliri masturbatorio-edipici di qualche newyorkese complessato ed agorafobico se ne frega ben poco. Eppure la verve drammatica veicolata da un intruglio di psichiatria e tragicomicità ha così tanto da dire! Si dovrebbe giungere ad un compromesso: una via di mezzo tra l’estremismo kafkiano alleniamo e le scanzonate commediole mainstream. Impossibile?! Ditelo ad Alexander Payne! Per il baldo regista statunitense, la delusione agli Academy di quest’anno (in cui il suo “Nebraska” ne è uscito adornato solo di nomination, lasciando le statuette a colleghi più e meno illustri) non intacca la sua consapevolezza artistica, data da uno stile unico quanto incisivo, un miscellaneo di qualità e arguzia che solletica i palati più raffinati come le bocche meno pretenziose. Il comodino di Payne, del resto, ostenta già due scintillanti Oscar, entrambi per sceneggiatura non originale, vinti nel 2005 e 2012; e anche se “Paradiso Amaro” si dimostra una pellicola ammiccante (q.b.) e caparbia, portando il regista alla seconda statuetta, ad Hollywood vige un detto: “il primo Oscar non si scorda mai”.
Come dimenticare allora “Sideways”, primo grande trampolino di lancio che proietta Payne nell’olimpo cinematografico indipendente americano! Eccolo qui il compromesso a cui si accennava prima: una commedia, che commedia non è; pellicola dolce-salata, vero piatto di nouvelle cuisine che, se al primo assaggio ci lascia spiazzati e perplessi, ai successivi ci esalta con una mixture di sapori antitetici (sì, ora la smetto con le metafore culinarie!). E’ la risemantizzazione alleniana in chiave new-age: cambia il paradigma, si evolvono gli scenari e si ridimensiona l’aspetto psicologico; è un gioco subdolo e raffinato quello di “Sideways”, pellicola capace di darci una parvenza di ricercatezza formale ed elitaria, pur costringendo il suo campo d’azione nel noto e nell’usitato: è la nuova frontiera tragi-comedy, che si camuffa dietro a qualche escamotage tecnico ricercato ed una sceneggiatura minimale ma destabilizzante. Ah, Payne sì che li conosce i suoi polli! E noi non possiamo che caderci con tutte le scarpe: un plot scarno che si muove su binari sempre diritti; non ci si può né deve aspettare nulla da una trama, già chiara sin dai primi minuti: è il flusso di coscienza il vero protagonista, la raffigurazione (ancora una volta) di drammi quotidiani portati ad un’estremizzazione iperbolica. Un po’ grottesco, un po’ naïf (dosaggi e percentuali sceglietele voi).
Tocca a Miles, main character nonché aspirante scrittore depresso e frustrato dal divorzio, dar voce a tutti gli elementi del film; l’uomo si trova “imprigionato” in un viaggio con il vecchio amico Jack, prossimo alle nozze, nella contea di Santa Barbara. Il piano era semplice: godersi qualche giorno, sorseggiando buon vino (di cui Miles è grande esperto ed appassionato), ricordando i tempi andati e guardando al futuro. Ma il tutto si riduce a Jack, costretto a far da balia ad un Miles sconsolato e lunatico, ancora aggrappato al passato e troppo coinvolto per pensare al futuro. I frustrati (e frustranti) tentativi di risollevare le sorti della vacanza sembrano poi scontrarsi con un’invisibile e sadica entità karmika, pronta a rovinare ogni accenno di ripresa. L’intera sceneggiatura gode di un equilibrio dinamico davvero sui generis: per quanto ogni vicenda, situazione, ogni (dis)avventura si porti al limite della rottura, la serenità viene presto ristabilita, per poi venire perturbata nuovamente; l’eterno ritorno all’uguale. La frustrazione dei protagonista, la sua ansia e la nevrosi si traducono in un montaggio altalenante e morboso, sagace sì, ma anche ridondante; ed è questo a garantire un’immedesimazione massiccia del pubblico, totalmente inserito nella cornice filmica dopo appena pochi minuti. Ecco come un dramma, contagiato da una comicità cinico-sadica ed adornato da avvenimenti al limite del surreale, riesce a carpire l’attenzione dei più, ormai ipnotizzati davanti ad uno spettacolo così inusuale.
Dovendo dare a Cesare quel che gli spetta, non si può certo snobbare il contributo di Paul Giamatti: caratterista hollywoodiano dalle mille facce, più ubiquo del prezzemolo! Grande prova d’attore per lui, in grado di scrollargli di dosso la fama di “macchietta” scenica; niente nomination agli Oscar per lui, che dovrà accontentarsi di una vittoria agli Chicago Film Critics Association Awards. La vera sorpresa però, è l’acclamazione a furor di popolo (e critica) delle interpretazioni di Thomas Haden Church e Virginia Madsen che, in un solo film, da attoruncoli (non me ne vogliano!) sconosciuti passano a nomi papabili nella notte degli Oscar. Church, nel ruolo del “mandrillone” Jack, (con)vince su tutti i fronti: intensità, vivacità e presenza fisica. Pretendere di più sarebbe avidità.
Alla fine della fiera cosa abbiamo? Una pellicola con presupposti modesti e contenuti, che si trasforma in guizzante successo internazionale. Il suo segreto, la mordacità. All’interno di un filtro idillico-scenografico, dato dalle serafiche e placide colline di Santa Barbara, si consumano grottesche e paradossali relazioni. Bizzarria e psicoterapia spicciola la fanno da padrone; una versione Bignami ed user-friendly del grande cinema introspettivo; si banalizza un po’ Freud e ci si sbeffeggia della condizione umana, ma senza far male a nessuno. A quanto pare il cineamatore contemporaneo ricerca queste pellicole border-line: che diano una parvenza di ricercatezza, ma senza rinunciare ad immediatezza ed intrattenimento (pseudo)spicciolo. Il perché? “Vuolsi così colà, dove si puote cioè che si vuole…”
Simone Filippini