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E non si sa ascoltare solo per il fatto che uno dei nostri cinque sensi è deputato a farlo. No.
Sentire, forse. Ascoltare è su un'altra dimensione uditiva.
Pochi sanno mettersi davvero in ascolto, anche tra chi dovrebbe farlo per mestiere, o tra noi genitori.
Io ci sto lavorando, ci sto sempre lavorando, ci sto ancora lavorando, da quando ho preso coscienza che non ero capace di ascoltare.
Ecco, già essere coscienti e riconoscere i momenti in cui manifestiamo la nostra ritrosia naturale all'ascolto, già questo, è un bel passo avanti. È il primo gradino della scala lunga e ripida che s'appoggia alla nostra idoneità all'ascolto.
È stata Nadia che, una quindicina d'anni fa, mi ha messo di fronte a questa mia incapacità, nonostante io negassi con forza di averlo, il problema.
Il sintomo tipico di chi non sa ascoltare è l'interruzione. Poi ce ne sono altri, in effetti, ma soffermiamoci su questo che è di facile individuazione.
Tu inizi a esporre un concetto divertente, serio, eccitante, drammatico e chi ti sta di fronte ha qualcosa di più divertente, più serio, più eccitante o più drammatico da rendere pubblico e perciò t'interrompe, o magari aspetta anche che tu finisca ma, nel frattempo, non ti ascolta e pensa soltanto a ciò che dirà lui quando prenderà la parola.
Nadia sosteneva che io a volte interrompessi gli altri (lei) per dire la mia, o per rilanciare, o per salutare e andarmene.
Io ero sicuro di no.
Quando, dopo quel giorno, è successo, lei ha cominciato a sorridere, così, senza dire niente. Sulle prime non ho capito, poi piano piano sì.
Io, assolutamente senza accorgermene, interrompevo un suo discorso, con una domanda o un cambio argomento inopportuno. Lei zitta mi mollava un sorriso. E io realizzavo che c'ero cascato.
Così facendo, non solo mi ha insegnato ad ascoltare chi parla, ma anche ad ascoltare un sorriso, sì, perché non si tratta soltanto di parole.
Ci sono da ascoltare gesti, espressioni, silenzi.
Lo dicevo che è complicato.
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