Due sigarette
(Torino 1961, Cesare Pavese)
Ogni notte è la liberazione. Si guarda i riflessi
dell’asfalto sui corsi che si aprono lucidi al vento.
Ogni rado passante ha una faccia e una storia.
Ma a quest’ora non c’è più stanchezza: i lampioni a migliaia
sono tutti per chi si sofferma a sfregare un cerino.
La fiammella si spegne sul volto alla donna
che mi ha chiesto un cerino. Si spegne nel vento
e la donna delusa ne chiede un secondo
che si spegne: la donna ora ride sommessa.
Qui possiamo parlare a voce alta e gridare,
chè nessuno ci sente. Leviamo gli sguardi
alle tante finestre – occhi spenti che dormono
e attendiamo. La donna si stringe le spalle
e si lagna che ha perso la sciarpa a colori
che la notte faceva da stufa. Ma basta appoggiarci
contro l’angolo e il vento non è più che un soffio.
Sull’asfalto consunto c’è già un mozzicone.
Questa sciarpa veniva da Rio, ma dice la donna
che è contenta d’averla perduta, perchè mi ha incontrato.
Se la sciarpa veniva da Rio, è passata di notte
sull’oceano inondato di luce dal gran transatlantico.
Certo, notti di vento. E’ il regalo di un suo marinaio.
Non c’è più il marinaio. La donna bisbiglia
che, se salgo con lei, me ne mostra il ritratto
ricciolino e abbronzato. Viaggiava su sporchi vapori
e puliva le macchine: io sono più bello.
Sull’asfalto c’è due mozziconi. Guardiamo nel cielo:
la finestra là in alto – mi addita la donna – la nostra.
Ma lassù non c’è stufa. La notte, i vapori sperduti
hanno pochi fanali o soltanto le stelle.
Traversiamo l’asfalto a braccetto, giocando a scaldarci.
Apro la sigaretta
(da “Ballate non pagate” , Alda Merini ) 1° ed. Einaudi 1995
Apro la sigarettacome fosse una foglia di tabacco
e aspiro avidamente
l’assenza della tua vita.
È così bello sentirti fuori,
desideroso di vedermi
e non mai ascoltato.
Sono crudele, lo so,
ma il gergo dei poeti è questo:
un lungo silenzio acceso
dopo un lunghissimo bacio.
Un uccello azzurro
( C. Bukowski )
nel mio cuore c’è un uccello azzurro che
vuole uscire
ma con lui sono inflessibile,
gli dico: rimani dentro, non voglio
che nessuno ti
veda.
nel mio cuore c’è un uccello azzurro che
vuole uscire
ma io gli verso addosso whisky e aspiro
il fumo delle sigarette
e le puttane e i baristi
e i commessi del droghiere
non sanno che
lì dentro
c’è lui
nel mio cuore c’è un uccello azzurro che
vuole uscire
ma io con lui sono inflessibile,
gli dico:
rimani giù, mi vuoi fare andar fuori
di testa?
vuoi mandare all’aria tutto il mio
lavoro?
vuoi far saltare le vendite dei miei libri in
Europa?
nel mio cuore c’è un uccello azzurro che
vuole uscire
ma io sono troppo furbo, lo lascio uscire
solo di notte qualche volta
quando dormono tutti.
gli dico: lo so che ci sei,
non essere
triste
poi lo rimetto a posto,
ma lui lì dentro un pochino
canta, mica l’ho fatto davvero
morire,
dormiamo insieme
così col nostro
patto segreto
ed è così grazioso da
far piangere
un uomo, ma io non
piango, e
voi?
una bruciatura di pallottola sul petto
della giacca,
è andato stanotte alla morte
coi suoi propri passi…
Hai una sigaretta? – dice.
Si, – rispondo.
Fiammifero?
No,
può accenderla la pallottola,
dico io.
Ha preso la sigaretta
è andato…
Forse adesso sta lungo disteso
la sigaretta non accesa
tra le labbra
una ferita sul petto…
Partito.
Segno di moltiplicazione.
Finito… La sigaretta di Jules Laforgue Sì, questo mondo è piatto, e quanto all’altro, frottole.
Senza speranza vado mansueto alla mia sorte;
per ammazzare il tempo, aspettando la morte,
fumo in faccia agli dei sottili sigarette. Su, viventi, affannatevi, o scheletri futuri.
Me, l’azzurro meandro che verso il cielo si torce
mi sprofonda in un’estasi infinita e m’addorme
come ai morenti aromi di mille bruciatori. Ed entro nel fiorito eden dai sogni chiari,
dove elefanti in fregola si intrecciano alla fioca
danza delle zanzare, in fantasiosi valzer. E quando poi pensando ai miei versi mi scuoto,
contemplo, il cuore pieno di dolce gioia, il caro
mio pollice arrostito come un cosciotto d’oca. In breve, stavo per darmi con un Vi amo,
quando mi accorsi non senza pena,
che prima di tutto non possedevo bene me stesso.
Dunque povero, meschino individuo
che non crede al suo Io se non a tempo perso,
vidi svanire la mia metà, portata via dal corso delle cose, tale lo spino vede sfogliarsi, col pretesto che è sera, la sua migliore rosa.
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