Due uomini e un cadavere. Il loro viaggio, i loro ricordi. Sullo sfondo una Russia mutevole ma sempre desolante.
Aleksei Fedorchenko, regista con appena due lungometraggi alle spalle, dedica Ovsyanki (2010) alla memoria dei suoi genitori. Ciò non stupisce perché a parte l’ultima frase ripetuta due volte (“solo l’amore non ha fine”), è proprio la pellicola tutta che si caratterizza di un tono introspettivo in cui si amalgamano nostalgie passate a quelle presenti.
Il corollario visivo tipicamente russo viene riproposto con appropriatezza nei soliti stilemi, aria nebulosa, ghiacciata, sospesa, che forgia esseri umani di stessa caratura: imperturbabili colossi dalle guance rosse. Se la cornice è questa, Fedorchenko compie il passo successivo ritraendo le usanze dei Merya, antico popolo ugro-finnico dalle discusse origini, che nel corso degli anni non ha perso il proprio folclore. Accade, perciò, che Silent Souls peschi sovente nel registro documentaristico mostrando il rituale di una cerimonia funebre (simile ad una nuziale con quei spaghetti attaccati ai peli pubici della sposa) che ha come cimitero l’acqua, perché i cimiteri veri lì, quelli di lapidi e terra, sono tutti mezzi vuoti.
La stramba solennità della liturgia trova risvolti simpatici (il marito che rivela le abitudini sessuali della coppia) affiancati dai pensieri extradiegetici del protagonista che appesantiscono un poco la narrazione a causa di uno spiegazionismo non sempre necessario.
Opera festivaliera in tutto e per tutto, vederla non è tempo sprecato.