Armando s’era addormentato. Nonostante le scosse e il rumore del treno, nonostante l’insufficiente lunghezza del sedile di legno, quello era tipo da dormire anche sul carbone del tender; e Olgi l’ammirava, un po’ lo invidiava, per quella capacità di adeguarsi alla brutalità delle cose, da giovane anch’egli l’aveva posseduta, poi l’aveva perduta.
Dormiva emettendo un fischio roco; e Olgi pensò: “Se davvero ha un cancro tra pochi mesi sarà morto.” Anche il padre di Olgi era morto di cancro.
Olgi sempre meglio riconosceva il paesaggio, fiutava il salmastro nell’aria, anche se era sempre campagna. E tra il verde sbucavano case, villini per lo più, freschi di civettuoli colori, ma anche case coloniche dall’aspetto modesto e solido, col pagliaio in ordine, il pollaio ben fornito, la stalla pure bene fornita, e panni, tanti panni, stesi ad asciugare sull’aia.
Anche capitava di vedere, all’improvviso, agglomerati di case brutte e piccine, quasi tuguri, oppure qualche palazzone nuovo dalla geometria uniforme. Segno che la città era vicina, sempre più vicina.
E quella città, una città di mare, era la città dove Olgi era nato e aveva vissuto i suoi primi vent’anni di vita. Là erano sepolti suo padre e sua madre, una sua sorella ecc., là vivevano creature che gli erano, per vincoli di sangue, care. Incollato il viso allo spiraglio avidamente guardava.
Non riusciva a ridare i loro nomi a quei luoghi famigliari, e se ne crucciava, quasi se ne vergognava come per un tradimento d’amore, adduceva a giustificazione che il treno correva troppo forte per consentire una identificazione degli elementi del paesaggio, e che inoltre egli non guardava direttamente da un finestrino ma da una porta socchiusa dirimpetto a un finestrino di corridoio, e sempre nella medesima direzione.
A una svolta però che fece il treno – correva in discesa lungo il fianco d’una collina irta di castagni – improvvisamente Olgi vide il golfo, un arco sinuoso che si estendeva da Castiglioncello fino al faro della Meloria, con un promontorio che si tuffava nel mare, ed era, appunto, Castiglioncello, con un grosso braccio proteso come una sfida alle collere del Tirreno e che erano le selvagge scogliere di Calafuria; là doveva esserci Antignano rustico, là la dolce Ardenza adagiata tra oleandro e aranci, là la passeggiata a mare fitta di stabilimenti balneari, bagni peri ricchi, bagni pei poveri, bagni per tutti; e poi l’Accademia Navale, l’ex Terrazza Ciano restata ugualmente terrazza, i cantieri Navali; e poi il porto, quello vecchio e quello nuovo, la fortezza Medicea, il canale Lanciotto, il Mandraccio, la Draga.