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Silvia Rosa: Di sole voci

Creato il 03 luglio 2010 da Viadellebelledonne

Silvia Rosa: Di sole voci

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Silvia Rosa, Di sole voci
Prefazione di Alessandra Pigliaru, Nota di Enzo Campi
Immagini fotografiche di Giusy Calia
Faloppio (CO), LietoColle Libri, 2010
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Prefazione

Poesia è, sì, lotta con la carne, relazione intima con essa
che dal peccato – “la follia del corpo” – conduce alla carità.
Carità, amore per la carne propria e altrui.

(Maria Zambrano)

È il martirio della lucidità ciò di cui si nutre il poeta, secondo Maria Zambrano. Quella contraddizione che non si vuole annientare bensì rendere visibile, come una cicatrice portata da un eterno innamorato. C’è una bellezza tutta da soffrire, nel giorno ghermito dall’ombra, in quel fare puntellato che si aggrappa all’esistere. C’è una bellezza dotata di senso, poi, ché a cercarla sembra difendersi dalla tempesta del mondo. Un modo speciale di r-esistere lo ha trovato Silvia Rosa nel suo esordio poetico che riferisce del tentativo inesauribile di rimanere appigliata a terrestri radici di senso / incerta nostalgia di un Altrove, percorrendo il baratro per raccontarcelo, lucidamente. Si tratta di un languore originario che si fa domanda poetica immedicabile e muta promessa. Così i versi di Silvia Rosa sono una cronaca del giorno a venire, della conta dei passi che servono per uscire dal fondo di sé per farsi Sola Voce. Il verso chiama una profonda cura del dettaglio e dello stile così come una parola piena, contundente e circolare che si fa carne nuda: il mio Corpo cede peso all’Anima / e cambia di significato e di sostanza / nello spazio del discorso / si appunta come un segno nero / a margine. Ecco che la nudità diventa la possibilità di decifrare con la pelle la scrittura e il segno del mondo: resta come un coagulo che si distingue dall’anima e accede al Senso. Tutti i dispositivi poetici di Silvia Rosa ci dicono il modo di accogliere il Senso per poi accettarne il distacco. È un rapace – IO – / che si nega la natura necessaria / degli artigli (in)segnandosi al rovescio / la regola del più forte tra i più deboli / ché siamo tutti deboli come una promessa / di quelle che (non) mantieni in silenzio / mantenendola -. La silloge raduna erosioni e calchi che segnano la lingua poetica, l’eterno crocicchio tra ciò che l’autrice sente e il suo manifestarsi: s’imprime in ogni lettera / che leccando l’alfabeto / (non) godo, / e spalanco le mie labbra / e muta punto le ginocchia // in cerca di salvezza. Ecco che torna quell’impressione di lucido martirio, di nitida ferita di cui si sa avvertire il significato verticale; e si cerca una sbavatura d’Eterno per tornare a domandare, in punta di preghiera, che cosa quell’Io, dopo una litania di combattimenti, sia ancora capace di cantare: una carità, forse, d’Assoluto amore.

(Alessandra Pigliaru)

 

Silvia Rosa: Di sole voci

Foto di Giusy Calia

(NELL’) ASSEDIO

Il battito asciutto della fuga
quando restavo immobile,
l’attrito con cui di trasparenze
innocue in una farsa
(mi) sprofondavi
nella culla -fredda- del mio nome,
a strapiombo su me stessa,
quando chiamavi l’ora
al crocevia di una domanda
d’ordine e nervatura tesa

ed erano coriandoli
al suolo appiccicoso
i miei passi inconsistenti
il fiato che si condensava
in brina di silenzi

mi si fosse incrinata appena
la corsa a spasmi di terrore
fossi caduta in un vortice turchino
che mi avesse scoperta
una falda affilata di dolore
un brano acuto di voce
-almeno uno- da infilare all’occhiello
come un bottone ricucito al varco
tra le mie ginocchia
tra l’asola stretta della bocca

tra gli schizzi di pioggia sporca
-non (c’)ero-
non c’era dove andare
nell’assedio che fin nel midollo
mi facevi tremare.

ISTRUZIONI PER L’USO

Spogliami lentamente
sfilami prima il nome
poi il cuore
in ultimo strappami via la mente.
Ricorda di starmi sulla pelle
in verticale
premendo come peso a piombo
tra le cosce sullo sterno
aderendo bene al solco vivo
del volto.
Ondeggia sempre dalla parte
opposta alla mia direzione,
non cedere alla tentazione
di un rotondo abbraccio
mantieni la tua forma
la linea nera di demarcazione.
Chiudi sempre ogni porta:
si capisce che se scappo
tu non puoi restare

del resto non si è mai vista
un’Ombra
senza nulla da macchiare.

 

ASTRATTA CARNE

Astratta carne
ti vivo di parole
e non di sangue
prigione di respiri
e braccia e occhi e gambe
condanna, che ti sconto
giorno dopo giorno dopo notte
dopo morte via
raschiandoti
dall’ombra del mio corpo

liberandomi…

SONO MORTA UNA MATTINA D’OTTOBRE

Sono morta una mattina d’ottobre,
ma non d’autunno
tra foglie rosse pioggia cielo plumbeo,
piuttosto luce rasoterra ovunque il sole
(un’assoluta sospensione di gravità spazio-temporale)
filtrata ogni mia cellula nella parola (in) divenire
me ne sono andata,
era d’ottobre, ma non d’autunno e non per sempre
perché per sempre è solo il ritornare
indietro immobile aspettare
è l’assenza di te, il vuoto del tuo nome
che mette rami secchi ad ogni lettera
che muore…

MADONNA DOMESTICA

Rinasco
in un vo(l)to di silenzio
all’alba
-mi si appannano i sensi-
Madonna domestica
(mi) prego me stessa
allo specchio

la mia Chiesa affollata di luce
è una finestra nel vuoto
chiusa
sul riflesso di me
che non sono.

DI UN’OMBRA CUPA

Non c’è un luogo
qualunque una terra
sicura una radice di Senso
-almeno una-

eppure

è tutto uno sbocciare inquieto
di verde
la muffa acida della noia
che sta ovunque
ed io mi sono un’ombra
di un’ombra cupa
ghiotta
della trasparenza incerta della foglia
quando non si sa
se cresca ancora
o muoia.

 



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